Una buona legge sull’apprendistato era attesa da decenni. Dopo un primo momento di soddisfazione generale sono emerse tutte le lacune
Ha avuto per lo più buona accoglienza il Testo Unico sull’apprendistato varato ai primi di maggio dal Consiglio dei ministri e ora al vaglio di parti sociali e regioni. Molto apprezzata, intanto, l’intenzione di “semplificare”, cioè di sgombrare il campo da quella sovrapposizione tra norme nazionali, regionali, di origine pattizia (456 le regolamentazioni contrattuali, 20 le leggi regionali, 2 le leggi nazionali di riferimento) che da tempo fornisce più di un alibi per non ricorrere a un contratto che da noi non ha avuto un gran corso negli ultimi anni, o per preferirgli il di tutto e di più del menù della precarietà: dalle collaborazioni a progetto ai tempi determinati brevi e brevissimi, dall’interinale ai lavori-non lavori come tirocini e stage. Un vero e proprio successo mediatico ha poi avuto la nuova definizione dell’apprendistato come contratto a tempo “indeterminato”. Successo in verità immeritato visto che al momento quella parola significa solo contratto a scadenza non definita, visto che per l’azienda resta tutta intera, alla conclusione del periodo di formazione, la possibilità di recedere unilateralmente dal rapporto di lavoro. A distanza di qualche settimana, affiorano infatti da più parti pareri più critici e svariate preoccupazioni, tra cui i ben undici punti di aperto dissenso dichiarati dalla Cgil.
Le questioni sul tavolo, del resto, non sono poche. Sebbene Sacconi dichiari che il contratto di apprendistato dovrebbe diventare lo strumento tipico per il primo ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, nel testo viene confermata per l’apprendistato “professionalizzante” – che delle tre tipologie previste è la sola utilizzata effettivamente – la possibilità di stipularlo fino alla soglia dei trent’anni, e per una durata massima addirittura esennale che ne dilata quindi la validità fino all’età decisamente adulta dei 35 anni. Un’anomalia rispetto alla Germania dove l’80% degli apprendisti ha meno di 20 anni e alla Francia dove gli apprendisti minori sono il 63%: da noi, invece, gli apprendisti con più di 18 anni sono il 97% e gli over 25 sono il 30%, mentre la tipologia dell’apprendistato cosiddetto del “diritto-dovere” riservata finora ai 16-18enni “obbligati” a conseguire almeno una qualifica professionale, è pochissimo utilizzata. E non è stata neppure regolamentata dai contratti collettivi e dalla legislazione regionale, segno inequivocabile di un disinteresse che non è solo aziendale. Non ha torto chi sostiene che per le imprese italiane l’apprendistato ben più che strumento per qualificare la manodopera giovanile è diventato un modo per aggirare gli oneri contributivi e per risparmiare sulle tasse. Tutto ciò appare chiarissimo se si guarda all’altro tema cruciale, lo stesso di cui si discute senza troppi progressi da anni. Come fare in modo, in un paese in cui sembra non interessare granché che i lavoratori sappiano di più di quello che è essenziale alla prestazione in atto, che la formazione si faccia davvero, dentro e fuori il contesto lavorativo. Che sia adeguata non solo ai bisogni immediati delle imprese ma anche al rafforzamento dell’occupabilità dei lavoratori. Che si concluda con titoli o con certificazioni, anche parziali, ma riconoscibili anche fuori dell’azienda di (più o meno provvisoria) appartenenza. Si tratta, come è evidente, di dare effettività (e anche giustificazione, se si guarda al problema dal punto di vista della spesa pubblica) allo scambio tra la formazione e le forti convenienze riconosciute anche in questo Testo alle imprese che accendono contratti di apprendistato: importanti sgravi contributivi, possibilità di inquadrare il lavoratore, anche decisamente adulto, fino a due livelli sotto quello previsto dalla mansione, facoltà di recesso unilaterale dal rapporto di lavoro. Per la frequenza con cui nel tempo tale scambio è risultato eluso, il nostro paese è stato più volte richiamato, in nome dei principi della concorrenza, dall’Unione europea. Ma invano. I dati riportati nel X Rapporto Isfol sull’apprendistato (2009) dicono che sui circa 650.000 apprendisti del 2008 solo il 20,7% – poco più di 1 su 5 – è stato coinvolto da attività formative organizzate dalle regioni (mentre poco o niente si sa di quelle on-the-job); che le percentuali più alte sono nel Nord Est (34,9) e in Emilia Romagna (37,6), mentre si riducono a 9% nel Centro, e a 5,1% e 1% nel Sud e nelle Isole; che l’essere coinvolti nella formazione esterna non significa che la si utilizzi pienamente (questo vale solo per il 30% dei “formati”), probabilmente per un insieme di motivi tra cui possono esserci, oltre a offerte formative pubbliche non sempre adeguate ai bisogni dei lavoratori e delle imprese, anche azioni di scoraggiamento da parte di queste ultime.
Non si può proprio dire, d’altro canto, che la richiesta di una formazione mirata al rafforzamento e allo sviluppo delle competenze “trasversali” o di base – quelle che servono a ulteriori processi di professionalizzazione oltre che all’esercizio della cittadinanza – possa attribuirsi solo a una immotivata o pregiudiziale sfiducia nei confronti di quella on-the-job, o possa comunque essere definita un di più, un optional di cui si può fare tranquillamente a meno. Nel 2008 il 54,6% degli apprendisti non ha nessun titolo di studio (5,8) o ha solo quello di scuola media (48,8), mentre solo il 9,1% ha una qualifica professionale. Il contratto di apprendistato si conferma dunque come via di ingresso al mercato del lavoro soprattutto per giovani e meno giovani che, avendo avuto meno scuola, avrebbero più bisogno di formazione e anche di qualifiche, titoli, certificazioni in grado di renderli più forti in un mercato del lavoro tutt’altro che facile. L’apprendistato di “alta formazione”, che il Testo unico estende anche ai dottori di ricerca e ai praticanti degli studi professionali, infatti, si è limitato finora a una sperimentazione nazionale che ha interessato sì e no un migliaio di apprendisti diplomati e laureati (che sono il 36,4% del totale). Mentre quello di “diritto-dovere”, che prevede 240 ore di formazione esterna – il doppio del monte ore previsto per l’apprendistato professionalizzante – ha riguardato nel 2008 solo 40.000 ragazzi (il 6,5% del totale degli apprendisti) a fronte di circa 110.000 16-18enni che risultano essere fuori sia dalla scuola che dal lavoro, e ha assicurato una formazione fuori dell’azienda a solo 6.500 di loro. Se siamo lontani anni luce dall’apprendistato tradizionale, quello rivolto agli adolescenti che nelle officine e nelle botteghe imparavano il mestiere sotto la guida ravvicinata e spesso fortemente motivata del padrone o di un lavoratore esperto, non abbiamo fatto passi avanti neppure in direzione di un apprendistato moderno, in grado di realizzare effettivamente un’alternanza studio-lavoro per i giovani poco scolarizzati, di produrre un buon equilibrio tra gli interessi delle imprese e quelli dei lavoratori, di flessibilizzare l’offerta formativa sia interna che esterna secondo le specificità dei bisogni formativi degli apprendisti e dei profili professionali di riferimento. È dalla regolamentazione nazionale del 2003, del resto, che si è consentito alle imprese, anche a quelle cui le regioni non riconoscono autonoma capacità formativa, di optare per una formazione degli apprendisti di tipo solo interno. Quanto ai tutors aziendali, figure fondamentali per un apprendimento che non sia solo addestramento imitativo, nel 2008 le regioni ne hanno formati poco più di 39.000, e per non più di 8 ore complessive pro capite.
Un quadro problematico, dunque, che il nuovo Testo unico non risolve. Se è una decisione di buon senso, anche a fronte della riduzione delle risorse regionali per la formazione professionale, che per la formazione degli apprendisti possano essere utilizzate anche quelle dei Fondi interprofessionali paritetici per la formazione continua, altre novità sono tutt’altro che convincenti. Non lo è la previsione di sole 40 ore di formazione esterna per il primo anno – e di 26 il secondo – per l’apprendistato professionalizzante, non tanto e non solo perché si tratta di un monte ore molto esiguo quanto perché non sembra aperto a possibili ulteriori flessibilità e articolazioni. Tanto meno lo è la decisione di abbassare da 16 a 15 anni l’età di ingresso nell’apprendistato del “diritto-dovere” a fronte di un obbligo di istruzione innalzato nel 2008 a 16 anni. Un puntiglio di questo governo, inaccettabile perché ideologico. Se è vero che in Italia ci sono ogni anno diverse migliaia di ragazzi che abbandonano la scuola prima dei 16 anni (e se altrettanto ideologica è la posizione di quanti a sinistra pretendono che solo la scuola, la stessa che li ha scoraggiati ed espulsi, possa farsene carico) è però indubbio che per questi ragazzi occorrono percorsi diversi. Servono – ci sono, e si dovrebbero potenziare – scuole della seconda opportunità, percorsi misti di orientamento, formazione professionale, esperienze di lavoro. Ma con rapporti tra “maestri “ e “allievi” di tipo educativo, che sono ormai difficili da trovare nella fabbrica e nel negozio di oggi, e che sono invece indispensabili perché gli early leavers dei nostri tempi, a cinquant’anni dall’avvio della scolarizzazione di massa, sono quasi sempre ragazzi complicati, difficili, ad alto rischio di marginalità. Sono del resto le stesse imprese a dire – e dimostrare coi fatti – che non intendono farsene carico. Perché allora insistere su un punto di scarsa fattibilità, se non per polemica contro le posizioni scolasticistiche di una parte della sinistra?
Di queste e di altre questioni che riguardano l’apprendistato bisognerebbe discutere anche fuori dai tavoli dei negoziati. Lo sviluppo dell’apprendistato, e di un apprendistato effettivamente formativo, è un obiettivo importante in un mercato del lavoro giovanile afflitto da tassi molto alti di disoccupazione e da una precarietà insistente e diffusa. Da tutti gli osservatori sul lavoro/non lavoro dei giovani viene fuori con chiarezza il maggior valore del contratto di apprendistato rispetto ad altre tipologie di lavoro a termine: non solo in termini di successiva stabilizzazione, ma perché meglio di altri tipi di incontro con il lavoro assicura un’esperienza professionale effettiva, utilizzabile spesso anche in altri contesti e per altri percorsi. Di questi tempi non è poco. Gli apprendisti non sono presenti in modo omogeneo nel territorio nazionale e in tutti i comparti del lavoro dipendente. I tassi più alti sono al Nord, i settori più coinvolti sono l’edilizia, il commercio, il metalmeccanico. Dipende da queste caratteristiche, e non da processi di segregazione di genere tipici dell’istituto, che gli apprendisti siano in maggioranza maschi (57,96%). Anche il calo della componente femminile da Nord a Sud (nelle regioni meridionali le apprendiste sono solo il 34%) è in linea con i tassi di attività e di occupazione femminile per la fascia di età 15-29 anni. Un guaio, di portata più generale, che bisognerebbe però contenere con strumenti appositi tra cui spiccano quelli, del tutto trascurati, di un orientamento “di genere”.