Per l’economia mondo l’Italia ha un eccesso di prodotti e processi maturi. La deindustrializzazione si può evitare con una politica pubblica a sostegno di merci e servizi carichi d’innovazione
Crisi economica ed eccesso di capacità produttiva
Se la crisi economica internazionale suggerisce delle misure internazionali di contrasto alla speculazione finanziaria, la caratteristica principale di tale crisi è nell’eccesso di capacità produttiva. Sostanzialmente l’attuale domanda di beni e servizi può essere soddisfatta con una minore forza lavoro e con forti barriere all’entrata, legate alla dimensione d’impresa. L’esempio della Fiat è paradigmatico. Infatti, la Fiat non è competitiva perché l’attuale struttura non permette di abbassare i costi fissi di produzione (impianti e macchinari) all’aumentare della produzione in misura equivalente a quella di altri competitor. Non a caso la Fiat interviene sui costi variabili (salario e regimi lavorativi), ma la riduzione dei costi variabili determina un risparmio marginale, e comunque più contenuto di quello realizzabile attraverso una buona dimensione di scala.
La crisi economica richiede cambiamenti all’attuale produzione. Da un lato abbiamo settori maturi con una domanda di sostituzione e sostanzialmente declinante; dall’altra si manifesta la necessità di affiancare a tali settori (a produttività decrescente), altri a maggior contenuto tecnologico e con tassi di crescita maggiori, con un mercato ancora tutto da occupare.
Consolidamento dei settori maturi
Naturalmente non tutti i settori maturi devono chiudere. In Germania il settore auto per molti anni non chiuderà. A livello internazionale si registra una concentrazione delle imprese dal lato della proprietà e da quello della produzione, al fine di garantire adeguate barriere all’entrata di altri concorrenti, oppure per costringerli a chiudere o cedere la propria attività. In particolare sono interessati da questo fenomeno i beni di consumo durevoli, mentre per i beni di consumo non durevoli si configura un mercato sempre più soggetto alla domanda e all’offerta di tipo neoclassico.
I primi (beni durevoli) sostanzialmente operano in regime di fix price [1], i secondi (beni non durevoli) in regime di flex price [2]. A livello internazionale, purtroppo molto meno a livello nazionale, le società (imprese) adottano strategie “aggressive” di acquisizione, o di joint venture, per raggiungere economie di scala adeguate a continuare la produzione di beni durevoli, lasciando al mercato e alla delocalizzazione tutte le attività non essenziali al processo di realizzazione del mark up (profitto).
Tratti generali delle politiche pubbliche (industriali)
Un tratto caratteristico dell’attuale intervento pubblico, nell’affrontare la sovra capacità produttiva degli impianti, è certamente legato a) all’accompagnamento dei processi di concentrazione dei player nazionali e sovranazionali per consolidare il peso internazionale delle proprie società, b) alla creazione di nuove società (settori) per soddisfare e anticipare la domanda di nuovi beni e servizi. Quest’ultimo percorso non è nuovo per il settore pubblico, ma diventa ancor più stringente nello sviluppo della green economy (al momento l’unico settore a domanda crescente – pubblica e privata –). In qualche misura il pubblico tenta di conciliare la domanda e l’offerta di tecnologia e, per questa via, modificare il processo di formazione del reddito (pil). Infatti, lo stimolo della domanda (tecnologica e di green technology) non è una condizione sufficiente per avviare un processo di adeguamento-conversione del tessuto produttivo. Può succedere che una parte della domanda (tecnologica) delle imprese e dei consumatori possa essere soddisfatta da una crescita delle importazioni (tecnologiche). Se consideriamo le tecnologie per produrre energia rinnovabile, il rischio di un paese che non produce queste conoscenze è di passare dalla dipendenza dalle fonti fossili, alla dipendenza tecnologica. È del tutto evidente che la dipendenza tecnologica ha contorni e implicazioni economiche (produttive) molto più dirimenti della dipendenza dalle fonti fossili. Considerando l’attuale crescita della green economy, sempre più endogena (Shumpeter), l’attenzione degli operatori pubblici si sposta dalla diffusione delle tecnologie alla generazione di tali tecnologie, concorrendo all’industrializzazione di questa innovazione. Si realizza un sistema o un modello che prima o poi sarà capace di misurarsi con il mercato senza il sostegno pubblico. Diversamente saremmo in presenza di un settore (mercato) protetto, magari ad alta intensità tecnologica, ma completamente fuori mercato. Gli esempi non mancano[3]. Il Governo federale tedesco ha varato una High Tech Strategie con circa tre miliardi l’anno (anno 2006), mobilitando i grandi istituti di ricerca e trasferimento tecnologico (come Max Planck e Fraunhofer) e la potente Kfw[4] su 17 programmi tematici e tre linee d’intervento orizzontale, con un particolare accento al sostegno alle start up tecnologiche e alle Pmi innovative. Per non parlare della Francia con i suoi programmi mobilizzatori e di poli di competitività che hanno permesso di aumentare la produttività del lavoro di quasi 8 punti dal 2000 al 2010, più della Germania, mentre in Italia è scesa di 5 punti. La stessa liberal-anglossassone Gran Bretagna ha costituito un Technology Strategy Board, attraverso il quale centinaia d’imprese a capitale nazionale ed estero promuovono e valutano, in corso d’opera, programmi di Collaborative Research e di Knowledge Transfer, con finanziamenti che coprono dal 25 all’80% dei costi e bandi di gara con valutatori esterni (senza click day).
L’assenza di grandi progetti di filiera nella politica industriale italiana, la conseguente scarsità di fondi a confronto con altri paesi, per non parlare della specializzazione produttiva, non sono l’ultima delle ragioni per cui le case madri di molte affiliate italiane a capitale estero non vedono nell’Italia la sede in cui progettare lo sviluppo futuro dei propri investimenti strategici, mentre resta l’importanza degli insediamenti produttivi e distributivi nel nostro paese in quanto grande mercato della domanda.
L’attuale allargamento della mission della Cassa Depositi e Prestiti verso forme d’intervento azionario[5] potrebbe diventare un’opportunità, ma senza un orizzonte di politica industriale, se non la sterile vocazione al libero mercato e alle liberalizzazioni, il rischio è quello di sperperare ulteriori risorse pubbliche.
Riconversione dentro l’impresa o fuori dall’impresa?
Pensiamo all’industria delle armi, la quale può produrre aerei da combattimento, elicotteri, carri armati, radar ed altro ancora, ma solo in ragione di un interesse nazionale pubblico. Infatti, i costi per unità di prodotto, in questo comparto, non solo sono fuori mercato, ma rendono impraticabile un processo di riconversione all’interno delle stesse imprese, per motivi di management e “non conoscenza” delle logiche di mercato. Sostanzialmente, la riconversione di queste attività si realizza all’interno della stessa società solo in casi molto particolari, quasi unici. All’interno di queste società (ad alta tecnologia) abbiamo il know how per realizzare nuovi beni e servizi, ma l’attività tipica (business) rimane quella di produrre armamento, condizionando la possibilità di entrare in settori emergenti. Può accadere che il pubblico decida di sostenere e finanziare determinati settori in ragione del contenuto tecnologico; spesso si utilizza come giustificazione il moltiplicatore keynesiano, ma occorre molta attenzione. Infatti, lo stesso moltiplicatore può essere realizzato in settori diversi. Il settore sanitario, dell’ict, dei nuovi materiali e della green tecnology, sono ambiti in cui la componente tecnologica è simile a quella militare, se non superiore, con il vantaggio di un’industrializzazione che permette l’abbattimento dei costi fissi in misura maggiore che non nel settore degli armamenti. In generale e non solo per il settore bellico, la riconversione dentro le imprese è difficile, soprattutto se operano in settori maturi con alte barriere all’entrata.
Per le imprese ad alto contenuto tecnologico diverse dal militare occorre sviluppare un altro approccio. Infatti, la “ri-conversione” è un’attività tipica. È la stessa tecnologia, meglio ancora la ricerca e sviluppo, a modificare l’offerta e la domanda. Si pensi alle società elettroniche che utilizzano il silicio e si sono riconvertite nella produzione di pannelli solari. In qualche misura il nuovo paradigma tecnologico, che è direttamente proporzionale alla conoscenza accumulata nel tempo, fornisce gli strumenti per spostarsi da un settore all’altro. Perciò la competenza tecnica (di sistema) è un nodo fondamentale per affrontare le sfide d’adattamento della produzione.
Riconversione o industrializzazione?
Si deve considerare anche la geografia dello sviluppo. Se un’area economica o un territorio dipendono in misura crescente da un settore produttivo a forte contenuto tecnologico orientato al mercato, la dipendenza economica, più che un vincolo, diventa un’opportunità. Infatti, nel territorio si concentrano saperi (università e centri di ricerca), imprese e reti, che producono e alimentano uno sviluppo endogeno.
Il problema si pone quando un territorio dipende da un settore maturo, a domanda declinante da un lato, e tecnicamente “indisponibile” alla formazione di adeguate economie di scala per abbassare i costi fissi dall’altro[6] . Indiscutibilmente la creazione di economie di scala attraverso lo sviluppo di reti potrebbe ridurre i costi marginali, ma solo per alcune attività manuali e meccaniche. I distretti italiani rappresentano bene l’idea della rete come infrastruttura per la competitività. Negli anni ’70 la rete ha permesso di “fronteggiare” l’economie di scala dei paesi concorrenti, ma lo sviluppo del nuovo paradigma tecnologico, cioè la forte crescita nel commercio internazionale della componente h-t dal 15% al 45%, ha modificato il target stesso della produzione. Se osserviamo la specializzazione dei distretti industriali nazionali possiamo ben comprendere l’impossibilità (tecnologica e di scala) per affrontare il nuovo modello di produzione. I distretti nazionali sono specializzati nel tessile-abbigliamento, calze-abbigliamento, legno-arredo, macchine agricole, meccanica, oreficeria, ecc. Possiamo migliorare il marchio e non molto di più. Possiamo introdurre delle tecnologie, adeguarle, ma la produzione della stessa tecnologia è tecnicamente impossibile.
Come affrontare il problema?
Come si può risolvere il problema delle aree fortemente dipendenti dai settori maturi soggetti a una concorrenza di prezzo? In questo caso le autorità pubbliche dovrebbero agire nel solco di una riconversione d’area, nel senso che il soggetto pubblico deve concorrere alla realizzazione di società veicolo o start-up che operano in settori e mercati emergenti e, per questa via, affrancare progressivamente l’area da un settore maturo e in declino.
Purtroppo l’Italia non ha la dotazione tecnica per affrontare i mercati emergenti. In particolare la struttura della manifattura limita le possibilità di crescita. Persino nei beni durevoli, dove sarebbe possibile un processo di concentrazione per alzare le barriere all’entrata per altri soggetti, l’Italia non si è mossa per tempo. Gli slogan sui distretti, le PMI e quello ancor più grave della ricerca e sviluppo non certificabile, hanno non solo inibito la politica industriale, ma lasciato un pesante gap di know how rispetto ai principali concorrenti europei [7]. Per non parlare degli incubatori tecnologici, nati per lo più per ragioni fiscali e non certo per qualche linea di politica industriale.
Forse con la crisi economica, il progetto di politica industriale europeo e l’obiettivo di produrre energia da fonti rinnovabili, potrebbe diventare un terreno fertile di discussione (politica) inedita. La politica italiana è però in grado di produrre un dibattito all’altezza della sfida tecnologica che la crisi ha dischiuso? Mentre in Italia si discute, da destra a sinistra, di lavoro e flessibilità, in Germania, Francia, Svezia, Cina, Brasile si discute del che cosa produrre. Un gap “culturale” enorme.
[1] Sono le imprese a determinare il prezzo di mercato. [2] È il mercato a determinare il prezzo di equilibrio. [3] F. Onida, 5 aprile 2011, Politica industriale non pervenuta, il sole 24 ore. [4] Equivalente alla Cassa Depositi e Prestiti italiana. [5] “La Cassa depositi e prestiti può assumere partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale in termini di strategicità del settore di operatività, di livelli occupazionali, di entità di fatturato ovvero di ricadute per il sistema economico-produttivo del Paese”, art. 7, decreto legge omnibus, aprile 2011. [6] In particolare per determinati beni e servizi non durevoli. [7] Si pensi allo sviluppo tecnologico dei BRIC (Brasile, Russia, Cina e India).