Chi si rivede, la patrimoniale. Il come e perché di un’imposta utile, che può portare come gettito un punto di Pil. Purché non sia una mossa disperata e straordinaria – come pare da certe proposte –, e si regga su tre pilastri stabili: il patrimonio finanziario, gli immobili, i gruppi d’impresa
Le recenti discussioni relative all’introduzione di una patrimoniale portano con loro due rischi. Il primo è quello di prendere lucciole per lanterne, ossia di far credere che sia possibile, attraverso uno strumento fiscale, “far piangere i ricchi”. La diseguaglianza nella distribuzione dei redditi e delle ricchezze deriva in misura prevalente dal modo in cui il valore generato nei processi produttivi viene distribuito tra i diversi fattori (disomogenei non solo per tipologia, capitale e lavoro, ma anche per gradi di flessibilità e per allocazione geografica). La diseguaglianza nei redditi e nelle ricchezze al netto delle imposte è, quindi, solo secondaria, perché le possibilità di redistribuzione per via fiscale sono ridotte per ragioni sia tecniche sia politiche. Ai politici piace parlare di fisco, facendo credere di poter attuare chissà quali cambiamenti, ma si tratta, appunto, di illusioni.
Il secondo rischio è, invece, quello di perdere un’opportunità. Le proposte di tassazione patrimoniale che vengono portate avanti in modo più o meno sistematico (Amato, Capaldo, Veltroni) hanno un carattere straordinario in quanto legato a un’esigenza specifica, ovvero la riduzione dello stock di debito pubblico. Tralasciando la discussione sull’opportunità e sull’eventuale entità di questa finalizzazione, il problema sta proprio nella straordinarietà dell’imposta. Le imposte straordinarie sono sempre difficili da gestire, perché richiedono tempi brevi e basi imponibili poco mobili. Ne segue che un’imposta straordinaria potrebbe configurarsi solo sul patrimonio immobiliare e non su quello finanziario, che altrimenti potrebbe facilmente essere nascosto o allocato altrove per il breve periodo in cui si applica l’imposta. Il gettito ottenibile in questo modo difficilmente potrebbe essere sufficiente a raggiungere gli obiettivi di abbattimento del debito dichiarati. Da qui il passo ad un’imposta straordinaria sui “redditi alti” è breve, ed è nefasto, perché i redditi alti sono comunque redditi da lavoro, posto che il reddito da capitale è in buona parte fuori dall’Irpef. Si finirebbe probabilmente vicino ad una riedizione, magari con qualche accorgimento, della tassa sull’Europa del 1997.
Ovviamente, non tutto il male viene per nuocere. È tempo che una discussione pacata (posto che non si fanno le rivoluzioni per via fiscale) ma non pre-determinata sull’imposizione patrimoniale si apra nel nostro Paese. Partendo da due dati di fatto. Il primo è che, secondo recenti stime del Fondo monetario internazionale, se l’Italia introducesse un’imposta patrimoniale in grado di produrre un gettito di livello medio rispetto a quello di imposte simili in Canada, Usa e Regno Unito, si potrebbe guadagnare un punto di Pil in termini di gettito. Il dato serve soprattutto ad illustrare il fatto che l’Italia ha livelli di imposizione patrimoniale bassi, ancor più dopo la cancellazione dell’Ici. Il secondo elemento da tenere presente in questo periodo post-crisi e di scarsa crescita (almeno per l’Italia), è che proprio la tassazione sugli immobili è considerata dall’Ocse come quella preferibile da adottare quando è necessario reperire risorse cercando di favorire nel contempo la crescita economica.
Occorre quindi abbandonare una prospettiva di carattere straordinario e riflettere invece su una manovra strutturale di ricomposizione interna al comparto delle imposte dirette, con un maggior peso per le imposte patrimoniali ed una minore importanza per le imposte personali e societarie sul reddito. Le imposte patrimoniali offrono diversi vantaggi teorici e pratici rispetto a quelle sul reddito, tra cui il fatto che consentono di stabilizzare il gettito, rendendolo meno variabile al variare del ciclo economico e riducendo quindi il rischio per le finanze pubbliche. Inoltre, la distribuzione del patrimonio è normalmente più sperequata rispetto a quella delle basi imponibili delle imposte personali, e quindi una ricomposizione del prelievo di questo tipo potrebbe aumentare la progressività complessiva del sistema. Non ci si deve nascondere, tuttavia, che anche per le imposte patrimoniali c’è il problema dell’accertamento della base imponibile, che è più semplice, rispetto all’accertamento del reddito, solo per i beni immobili, mentre è particolarmente complessa per i patrimoni finanziari. È qui che dovrebbe intervenire un sistema europeo integrato di anagrafe dei flussi patrimoniali, ed è qui che il problema della tassazione si lega a quello, più generale e complesso, della regolamentazione dei flussi di capitale, all’interno e all’esterno dell’Europa. Non si tratta di problemi semplici. Per questa ragione, sarebbe preferibile pensare ad una strategia in più fasi.
In primo luogo, si potrebbe immaginare di cambiare il sistema di tassazione dei redditi finanziari. L’assetto esistente, basato sull’idea di tassare i redditi da attività finanziarie, è contrario a qualsiasi principio di neutralità (visto che diverse forme di reddito da attività finanziarie sono tassate con aliquote diverse) e di equità (visto che, al di là della differenziazione tra plusvalenze e dividendi da qualificate, le aliquote si collocano nella curva bassa dell’Irpef). Muoversi verso un sistema del tutto neutrale – dopo le esperienze degli ultimi anni – appare sostanzialmente impossibile. A questo punto, perché non pensare ad una soluzione all’olandese, dove al patrimonio finanziario (al netto delle partecipazioni qualificate e di quelle nei paesi a fiscalità privilegiata) si applica un’aliquota sul rendimento presunto, e quindi, sostanzialmente, si tassa il patrimonio? Avrebbe i tipici vantaggi einaudiani di un’imposizione normale e quello, non indifferente, di stabilizzare il gettito. Certo, avrebbe il difetto di essere pro ciclica, ma buona parte della letteratura trova valori piuttosto bassi dell’elasticità alle imposte del risparmio.
In secondo luogo, l’Ici va assolutamente ripristinata dopo aver rivisto i valori catastali sulla base di dati realistici di valore che sono già disponibili all’Amministrazione finanziaria con un buon livello di dettaglio, quantomeno per le grandi città (basti guardare ai dati dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare disponibili su Internet). L’abrogazione dell’Ici sulla prima casa (purtroppo richiesta anche da forze di sinistra nel recente passato) è stata un errore che diventa oggi ancor più evidente nel contesto di attuazione della riforma federalista.
Infine, il passaggio dal reddito al patrimonio (ovvero ad una tassazione del reddito presunto sulla base della consistenza patrimoniale) potrebbe essere adottato per i gruppi di impresa e per le imprese singole dotate di una minima consistenza patrimoniale, cercando di evitare i fenomeni di “imprese in perdita ripetuta” noti da anni ed oggetto di diversi infruttuosi tentativi di revisione.
Come si vede, ci sono diversi terreni di discussione di un qualche interesse se si riesce a sgombrare il campo da proposte rozze o comunque destinate a scopi discutibili.