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A lezione di crisi. Da sinistra

“La crisi vista da sinistra”. Parte a Roma un ciclo di seminari: con pensiero critico su quel che è successo e proposte alternative per uscirne. Dal 27 gennaio

Parte a Roma un ciclo di seminari su “la crisi vista da sinistra”. A partire dal 27 gennaio, ogni giovedí alle 18 presso l’Associazione “Forum Terzo Millennio” (si veda locandina allegata) professori e ricercatori critici del pensiero neo-liberista dominante presenteranno la propria visione sulla crisi economica e sulle politiche possibili per uscirne.1

I seminari sono rivolti a non esperti di economia e vogliono in primo luogo informare i/le cittadini/e che l’economia, come ogni altra scienza, é un luogo di dibattito – ben lungi dal possedere verità conclamate. Il tentativo di esponenti e partiti politici di farla invece apparire come il tempio dell’unica Verità (quella liberista) sono una deformazione che si cura con l’informazione. Gli economisti che interverranno avranno opinioni diverse dalla Verità, ma anche tra loro, proprio a rimarcare come nell’accademia il dibattito sia in corso, e se nella società non é ancora partito vuol dire che abbiamo un problema. Anche a sinistra.

Infatti, col sopraggiungere della crisi molti pensavano che un certo spostamento elettorale avrebbe preso corpo in direzione della sinistra progressista. Ciò é avvenuto negli Stati Uniti (con le presidenziali), in Giappone e in Australia, ma non in Europa. La mia opinione é che questa discrepanza sia la conseguenza non di particolari meriti della destra, ma del fatto che la sinistra europea (più che altrove) é stata presa di soppiatto nel mezzo di un processo inverso: in cui il Labour britannico, la SPD tedesca e il PD italiano avevano abbandonato i lidi socialdemocratici per spostarsi su posizioni più tipicamente liberali e a volte anche conservatrici.2

Ciò é dovuto a considerazioni politico-elettorali ma anche ad un processo culturale che sempre più ha visto emergere la tesi nuovista, che riassumerei cosí: ignorare i conflitti sociali, assumendo che non esistano e proclamando l’ “alleanza tra produttori”; dichiarare la globalizzazione un fenomeno nuovo, che le “vecchie” ideologie non sono in grado di comprendere; comprimere il ruolo del settore pubblico e potenziare quello del mercato (spesso fingendo di vedere che il mercato é cosa diversa dalla concorrenza, e che solo quest’ultima produce effetti benefici, secondo la teoria economica); orientare il dibattito e la percezione di problemi sociali quali la povertà, la precarietà, la disoccupazione, presentandoli come problemi individuali.

Questo approccio neo-liberista si presenta come un superamento delle divisioni ideologiche, ma é tale solo in quanto sostituisce il dibattito con un’unica nuova ideologia, che non accetta di confrontarsi alla pari con altre possibili. Non servirà ricordare ai lettori di questo sito come dell’efficacia della maggior parte delle ricette neo-liberiste non vi sia alcun riscontro empirico. Ad esempio, l’idea che comprimendo i diritti dei lavoratori si abbia più crescita economica è un atto di pura fede. La crisi potrebbe mettere in discussione questa fede, se non altro mostrando che il mercato é un meccanismo molto fragile, specie se lasciato a regolarsi da solo.

Per chiarire meglio quest’ultimo passaggio, conviene entrare un po’ nei dettagli (semplificando molto, mi scuseranno gli specialisti). Tutto parte dagli Stati Uniti, dove a un certo punto diventa chiaro che c’é un numero eccessivo di mutui immobiliari cui i rispettivi debitori (proprietari di casa) non sono assolutamente in grado di far fronte. Sono i mutui subprime, concessi spesso dopo una sbrigativa e sommaria istruttoria a soggetti che non potevano dare garanzie adeguate. Le banche li hanno finanziati principalmente con l’obiettivo di liberarsi immediatamente dopo di questo rischio, rivendendo questi mutui sul mercato. Nel 2008 le banche scoprono che il pianeta Terra non può vendere i suoi rischi al Pianeta Marte,3 l’opacità dei titoli finanziari sempre più incomprensibili diventa un problema e gli speculatori cominciano a chiedersi quale banca sia messa peggio. Immediatamente nessuno si fida più di nessuno, e nessuno presta più a nessuno: é l’inizio del crollo dei mercati, cui le banche centrali faranno fronte stampando (e prestando alle banche) quantità enormi di denaro, e che ciononostante ha generato una caduta del credito alle imprese, diventando cosí crisi economica. La crisi economica di alcuni Paesi si ripercuote sugli altri tramite il crollo delle esportazioni, ed arriviamo allo scenario attuale: la guerra delle valute straniere e l’esplosione dei debiti pubblici nel tentativo di salvare il salvabile.

Ma come si é arrivati a ciò?

Nei seminari, verrà mostrato che gli economisti “eterodossi” hanno proposto almeno tre ordini di spiegazioni:

1. le liberalizzazioni e la de-regolamentazione, soprattutto dei mercati finanziari, nella convinzione che il mercato si regoli da sé. Come é stato subito evidente, i mercati spontaneamente generano invece tendenze alla monopolizzazione, alla “cattura” del potere politico per fini di parte, e conflitti d’interesse di dimensioni bibliche (ad esempio quello delle agenzie di rating, che dichiaravano i mutui subprime degli ottimi titoli, consigliabili ad esempio per investire la propria pensione). Questa spiegazione, caldeggiata da Galbraith e gli istituzionalisti americani, é parzialmente condivisa anche da economisti e istituzioni più tradizionaliste.4

2. l’ipotesi di fragilità di Minsky. Secondo l’ormai noto economista americano, in tempi di relativa tranquillità (come il ventennio precedente la crisi) gli operatori economici accumulano sempre più rischi: come nel caso attuale hanno fatto le famiglie, che hanno contratto mutui aspettandosi di ripagarli tramite il guadagno derivante dalla vendita della casa stessa (aspettandosi un costante incremento dei prezzi), e le banche che glielo hanno permesso. Questo livello crescente dei rischi rende il sistema economico sempre più “fragile”, finché é sufficiente qualche piccolo incidente per rendere alcuni operatori insolventi, che a loro volta “travolgono” i loro creditori nelle difficoltà finanziarie, e il sistema economico in cui tutti sono collegati da rapporti di debito e credito diventa simile a un castello di carte.

3. gli squilibri macroeconomici, interni ed internazionali. Questa spiegazione, avanzata da economisti quali Godley e in Italia Sylos Labini, denuncia l’impetuosa crescita dei debiti privati e di quelli con l’estero, in alcuni Paesi saliti a livelli insostenibili mentre le autorità si sperticavano nel denunciare la molto minore crescita dei debiti pubblici. A loro volta, gli economisti che sostengono questa tesi si dividono sulle cause di tali squilibri: dall’esistenza di Paesi (come la Germania e la Cina) che pretendono di vendere senza mai comprare, prestando il denaro necessario ai loro stessi clienti, alle menzionate pratiche speculative di famiglie e banche americane.

Queste spiegazioni (ed altre se ne potrebbero elencare) non sono mutuamente esclusive, ed anzi sono facilmente integrabili. Ciò che condividono, é il fatto che – per quanto realistiche – si tratta di ipotesi neanche minimamente immaginabili nel mondo perfetto sognato da politici ed economisti neo-liberisti. Ciò che li divide, é l’enfasi su aspetti diversi delle complesse economie moderne. Mentre politiche più o meno neo-liberiste vengono da anni ormai presentate come inevitabili e necessarie, osteggiate solo da utopisti e conservatori mentre “l’Europa ce lo impone”, é tempo di avviare finalmente un dibattito approfondito, in cui invece di giudicare i sindacati per le loro valutazioni qualcuno spieghi ai lavoratori come e perché ha appoggiato politiche che ne hanno messo a rischio il posto di lavoro, e qual é la strada per uscire oggi dalla peggiore crisi dell’ultimo secolo o quasi.

Speriamo con i seminari di dare un contributo alla partenza di un tale dibattito, almeno dentro la sinistra, e invitiamo tutti i lettori a Roma a prenderne parte.

1 Registrazioni di tutti i seminari saranno rese disponibili online sul sito www.labouratorio.it

2 Utilizzo qui una terminologia accademica, ma ormai resa arcaica dall’inversione terminologica (che vale solo in Italia) per cui riforme “progressiste” sono quelle che aumentano il ruolo del mercato nella società, e posizioni “conservatrici” sono quelle della sinistra più radicale, fino ad arrivare a sostenere che “il liberismo é di sinistra” (Alesina e Giavazzi). Al di là del contenuto politico di tali posizioni, la chiarezza terminologica appare un requisito fondamentale di un dibattito sano. Per questo come in tutte le scienze sociali tenderò a definire “progressiste” o di sinistra le posizioni che favoriscono redistribuzione e mobilità del reddito, e “conservatrici” o di destra le posizioni che tendono a perpetuare l’attuale distribuzione di reddito, potere, status (ovviamente mi riferisco a Norberto Bobbio (1994), Destra e Sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Donzelli Editore, Roma).

3 Per essere più precisi, banche e istituzioni finanziarie si sono vicendevolmente vendute prodotti rischiosi, o spesso li hanno tenuti “in casa”, vendendoli fittiziamente a delle società di loro proprietà (le special purpose entities, SPE o SPV). Avrebbero dovuto accumulare delle riserve di capitale per far fronte all’eventualità che questi rischi divenissero perdite, cose che avrebbe reso meno redditizio e quindi molto limitato questo tipo di business, ma hanno sfruttato falle nella (de)regolamentazione e nella sorveglianza, sostenendo che queste società non erano soggette alle più strette normative sulle banche.

4 Si consideri per esempio l’articolo dal titolo significativo “A crisis of confidence… and a lot more” pubblicato sul volume di giugno 2008 della rivista Finance & Development dell’Fondo Monetario Internazionale: http://www.imf.org/external/pubs/ft/fandd/2008/06/kodres.htm

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