Il caso Pomigliano insegna che vanno riequilibrati i rapporti di forza a vantaggio del lavoro. Usando anche il fisco e il reddito di cittadinanza
Una delle clausole del cosidetto “accordo” di Pomigliano prevede che i lavoratori lavorino dieci minuti in più al giorno. A parità di produzione circa 100 lavoratori perderanno il posto a causa di ciò. Il costo di 100 lavoratori è circa tre milioni di euro all’anno, cioè meno di un terzo di quanto hanno ricevuto nel 2009 Marchionne e Montezemolo messi insieme. Se Montezemolo si accontentasse di 10.000 euro al giorno, e Marchionne di 9100, si potrebbe dare lavoro a 100 operai in più. Mi pare che coloro che sostengono che i lavoratori sono vittime dell’ideologia, mentre il management attua buone scelte economiche, non abbiano le idee chiare su cosa sono l’ideologia e l’economia.
Esiste in effetti una forte ideologia padronale, che si caratterizza in primo luogo per una preoccupante indifferenza non solo per la redistribuzione, ma anche per la semplice distribuzione del reddito. Questa indifferenza è molto pericolosa. L’attuale classe padronale non ha alcuno scrupolo, e può portare l’Italia alla rovina. Se gli italiani accetteranno di lavorare in condizioni da terzo mondo, buon per loro; e se no peggio per loro.
Questi padroni irresponsabili sono oggi la parte forte sul mercato del lavoro. Possono davvero attuare lo “sciopero degli investimenti” e portare la produzione all’estero; e in effetti lo stanno già facendo, e continueranno a farlo quale che sia il livello di resa (nei due sensi) cui arriveranno i lavoratori. Ci sono anche altri fattori che si sommano a questo e ne rafforzano i risultati. La maggior parte della produzione odierna, per sua natura, non consente l’accumulo di scorte; il mutamento tecnologico è molto rapido, e ostacola oggettivamente la stipula di contratti di lavoro di lunga durata; l’incertezza sull’andamento della domanda e il cambiamento tecnologico aumentano il rischio per i padroni, sopratutto per i più piccoli: “ci manca solo che gli operai vogliano più soldi, quando è già difficile non chiudere”. In queste condizioni le lotte sul luogo di lavoro sono assolutamente necessarie, ma ben difficilmente potranno essere vincenti.
D’altra parte, soluzioni socialdemocratiche avanzate (nazionalizzazioni, uso delle imprese pubbliche, controllo sociale sulle condizioni di lavoro) non sono proponibili. O meglio lo sono nel lungo periodo, e richiedono trasformazioni molto profonde a tutti i livelli, non solo nel campo dell’istruzione, della politica industriale e della fornitura di beni pubblici, ma anche della rappresentanza politica e della formazione della classe politica. E’ necessario battersi fin d’ora per tutto ciò, ma bisogna fare qualcosa intanto, non solo per la necessità di arginare la povertà e lo sfruttamento, ma anche per evitare (se siamo ancora in tempo) che l’irresponsabile strapotere dei padroni e dei politici attuali portino la povertà, la miseria culturale e l’anomia a livelli tali da rendere impossibili riforme che richiedono invece cultura, impegno e partecipazione. Il problema per la sinistra è insomma quello di avanzare proposte che siano valide e realistiche date queste condizioni, cioè in una situazione in cui un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori (e a fortiori dei disoccupati) non può essere ottenuto attraverso miglioramenti del rapporto di lavoro. Si deve cambiare terreno di lotta. Più in dettaglio, ciò significa che le proposte che si devono fare devono essere immuni dal ricatto padronale “o così o ti licenzio”.
Qui di seguito suggerisco un “pacchetto” in tre punti che mi pare abbia queste caratteristiche.
a) Lotta finale all’evasione fiscale dell’Irpef. Per “finale” intendo dire che esistono i mezzi tecnici per ridurla a dimensioni assai poco rilevanti. Ci sono parecchi validi motivi per intervenire sopratutto sull’Irpef. Sull’Irpef ci sono meno complicità che sull’Iva: gli operai della piccola – o grande – ditta che evade l’Iva sono ostili all’accertamento Iva assai più che a quello Irpef del loro padrone. L’accertamento Irpef, se lo si vuole fare, è assai più semplice e rapido (si tratta di imporre pagamenti elettronici e di incrociare i dati degli acquisti, dei movimenti bancari e delle dichiarazioni dei redditi) e meno esposto a contenzioso. La sanzione Irpef può includere anche quella Iva (gli importi sottratti all’Iva alla fine diventano redditi di qualcuno). Gli effetti dannosi di aumento dell’inflazione e riduzione della produzione sono molto minori per l’Irpef che per l’Iva. Infine, l’evasione Irpef è assai più consistente di quella Iva. Il che ovviamente non implica che non si debba ridurre drasticamente anche l’evasione Iva (e dei contributi previdenziali).
b) Al di là dei proventi derivanti dalla riduzione dell’evasione, bisogna rivendicare una decisa redistribuzione del reddito da operarsi con strumenti fiscali. Una tassazione dei redditi alti e dei patrimoni altissimi potrebbe agevolmente portare a entrate aggiuntive dell’ordine almeno dell’1 o 2% del Pil, cioè 15-30 miliardi di euro, da usare a fini sociali. Si tratta di somme assolutamente sopportabili (in effetti è sensato pensare anche a cifre più alte), e ampiamente inferiori, come percentuale sul Pil, al trasferimento in senso opposto che si è avuto negli ultimi decenni.
c) Infine e sopratutto, bisogna introdurre il salario di cittadinanza. Non si tratta solo di porre rimedio alle condizioni di povertà e di unificare una rete di sussidi che si presta a troppa discrezionalità. Si tratta anche dell’unico modo per potere mantenere condizioni di vita dignitose per i lavoratori (e perché no, migliorarle) senza dare ai padroni possibilità di ricatto. Un padrone che sposta lo stabilimento in Romania perché lì il lavoro non dà problemi difficilmente trasferirebbe la residenza perché le sue tasse sul reddito sono aumentate, per di più di poco. In effetti un salario di cittadinanza accettabile potrebbe essere interamente finanziato con i proventi dei punti a) e b). Come ha dimostrato in modo convincente Ugo Colombino (si veda il suo intervento su “La Voce”, e la letteratura scientifica ivi citata), un sussidio di 400 euro mensili medio per famiglia richiede un aumento delle aliquote irpef di 1-2 punti percentuali, purché la base imponibile sia sostanzialmente esente da evasione. Questa cifra è troppo bassa, ma consente di stimare, sia pure in modo un po’ approssimativo, che un aumento medio del 10% dell’Irpef consentirebbe ampiamente di pagare un salario di cittadinanza sufficiente, sopratutto se si considera che si potrebbe intervenire anche con altri strumenti. Si dovrebbe spostare l’1.5% circa del prodotto interno lordo: per fare un confronto, il “liberista” governo inglese ha appena adottato una manovra che sposta (perlopiù in direzione opposta a quella qui auspicata, a quanto è dato sapere) circa il 4% del Pil.
Naturalmente il provvedimento dovrebbe essere accompagnato da alcune norme di contorno (riduzione di pari importo della retribuzione dei non-poveri, trattamento delle persone a carico, ecc.;). Sopratutto, occorrono norme che impediscano ai padroni di diminuire il costo del lavoro di un importo pari al salario di cittadinanza. Si dovrebbe cioè imporre anche un salario minimo. Ma questo potrebbe essere bene accetto dai padroni per quanto riguarda i costi aziendali: se il costo di una data unità di lavoro è, poniamo 2.000 euro, il salario di cittadinanza è di 500, e il costo minimo del lavoro viene fissato a 1.600, le condizioni del lavoratore migliorano, ma il costo del lavoro si riduce del 20%.
Mentre i punti a) e b) sono piuttosto ovvi, il punto c) richiede un minimo di argomentazioni in più. Ci sono quattro ottime ragioni, due economiche e due politiche, che in aggiunta a quanto già scritto suffragano la validità della proposta. In primo luogo, risulta da numerose ricerche empiriche che la certezza di un reddito minimo propizia una maggiore partecipazione, una maggiore assunzione di rischi, un maggiore investimento in formazione e una minore anomia, e che questi effetti prevalgono o sono perlomeno equivalenti a quelli di segno opposto della “trappola del sussidio” – non lavorare perché ci si accontenta del sussidio. In secondo luogo, come abbiamo visto, il salario di cittadinanza consentirebbe riduzioni assai significative del costo del lavoro, con effetti positivi sulla competitività. Terzo, la proposta del reddito di cittadinanza ridarebbe ai lavoratori il “moral high standing”, di cui sono stati privati agli occhi di buona parte dell’opinione pubblica sulla base dell’accusa di sabotare la competitività. “Se si vuole aumentare la competitività, noi abbiamo fatto la nostra parte: fra i grandi paesi europei abbiamo i salari più bassi e gli orari di lavoro più lunghi. Adesso è sufficiente che voi padroni facciate la vostra pagando un po’ di più di tasse sul reddito (e sulla ricchezza)”. Infine, e forse più importante, sul salario di cittadinanza si può creare una vasta alleanza. Non sono solo i lavoratori poveri e i disoccupati a essere interessati, ma anche i giovani senza lavoro e i loro genitori e gli anziani che rischiano di perdere il posto. Se la richiesta del salario di cittadinanza non viene avanzata è a causa della diffusa convinzione (che abbiamo visto essere sbagliata) che i soldi non ci sono; ma sopratutto a causa del pudore del centro sinistra in tema di tassazione dei redditi elevati, che sembra però attenuarsi, sotto i colpi della realtà. Non ci sono valide ragioni materiali perché la maggioranza del popolo italiano debba essere contraria.
In conclusione: se si vuole impedire che gran parte dei lavoratori e dei disoccupati italiani arrivino a condizioni di impoverimento insostenibili, si deve separare una parte del reddito dalla prestazione lavorativa. In questo intervento ho cercato di argomentare che ciò è possibile.