L’allungamento dell’età di lavoro può innestare un circolo vizioso. Mentre è necessario adattare la struttura produttiva alla domanda che verrà dagli anziani
In qualsiasi sistema pensionistico e di welfare si trasferiscono risorse dai lavoratori e dalle imprese in attività verso chi non lavora. Di per sé, i piani pensionistici consentono soltanto di accumulare dei diritti sulle risorse future, ma non di aumentarle. Se i lavoratori anziani sono meno produttivi dei giovani, il semplice prolungamento della vita lavorativa rischia di avviare un circolo vizioso in cui ogni generazione lavora più a lungo, con una produttività inferiore, che impone ulteriori allungamenti della vita lavorativa per poter pagare pensioni decenti. In una società che invecchia, è indispensabile adattare la struttura produttiva alla domanda di beni e servizi che verrà dagli anziani. Quindi i fondi pensione dovrebbero investire nelle tecnologie biomediche, nella domotica e nei servizi dedicati alla terza età.
Il dibattito sulla riforma pensionistica sembra eludere un aspetto fondamentale: le risorse destinate a chi non produce abbastanza, siano essi anziani, disoccupati o imprese in difficoltà, devono essere necessariamente sottratte a chi è in attività al momento del bisogno. Al massimo, un buon sistema previdenziale può stimolare (lievemente) risparmi e investimenti che potranno aumentare la produzione negli anni a venire. In altre parole, non conta tanto come oggi i futuri pensionati accumulano dei diritti sulle risorse future (tramite contributi versati ad un ente pubblico invece che ad un fondo privato, acquistando titoli invece che oggetti di valore e beni immobili), ma piuttosto come potremo provvedere alle loro necessità nei prossimi anni. E’ ovvio, infatti, che i crediti maturati oggi non avrebbero alcun valore se alla scadenza non vi saranno risorse sufficienti per onorarli. Anche ammesso che gli attuali pensionati, durante la propria vita lavorativa, siano riusciti a metter da parte qualcosa (non deperibile e non soggetto a deprezzamento) da consumare da vecchi, si tratta sempre di risorse sottratte ai lavoratori in attività. Si può discutere sull’entità del trasferimento verso chi non lavora più, sulla volontarietà e sulle modalità tecniche, ma sulla sua necessità non possono esserci dubbi, a meno di ricorrere al metodo che, secondo Federico Caffè, veniva adottato presso alcune tribù, ossia sospingere gli anziani del villaggio verso il centro di un fiume con delle pertiche e aspettare che la corrente provvedesse a riequilibrare il sistema pensionistico locale.
Tuttavia, non è esente da critiche la posizione di chi continua a ripetere che, in una società che invecchia, l’equilibrio del sistema pensionistico richiede un aumento del numero di persone in attività ed una riduzione della platea dei pensionati, realizzabile attraverso un allungamento della vita lavorativa. Ad esempio, l’equilibrio del sistema potrebbe essere raggiunto aumentando significativamente la produttività dei futuri lavoratori, che così sarebbero in grado di sostenere anche i futuri pensionati senza eccessivi sacrifici, come è avvenuto fino a qualche decennio fa. Il semplice allungamento della vita lavorativa presenta, inoltre, parecchie controindicazioni, perché un lavoratore anziano è probabilmente meno produttivo di uno giovane, sia per motivi fisici, sia per l’inevitabile obsolescenza delle conoscenze e delle abilità possedute. Sembra che un matematico perda smalto già verso i trent’anni, ossia molto prima di qualsiasi calciatore, e nessuno vorrebbe viaggiare su un aereo o un autobus guidato da un settantenne. Se poi, come è auspicabile, i giovani saranno più istruiti dei propri padri e nonni, l’allungamento della vita lavorativa rischia di mantenere “in servizio” personale meno qualificato e quindi meno produttivo, abbattendo in modo permanente la crescita potenziale del paese. Quindi si rischia di cadere in un circolo vizioso in cui ogni generazione lavora più a lungo, con una produttività inferiore, che impone ulteriori allungamenti della vita lavorativa per poter pagare pensioni decenti alla generazione precedente.
Rimane, inoltre, un problema che viene discusso raramente e riguarda la composizione qualitativa delle risorse da destinare ai pensionati. Gli anziani, infatti, hanno presumibilmente bisogno soprattutto di cure mediche, supporto fisico (dai bastoni alle dentiere) e psicologico, ossia di beni e servizi piuttosto snobbati dai giovani. Se domani tutto questo non sarà prodotto all’interno, sarà necessario importare i beni necessari ed i lavoratori disposti a fornire servizi agli anziani. Ma se cadremo nel circolo vizioso tra allungamento del periodo di lavoro e minore produttività, le nostre ragioni di scambio peggioreranno e queste importazioni saranno sempre più onerose. A questo punto, diventa cruciale il modo in cui oggi si impiega il risparmio pensionistico: o si stimola significativamente il progresso tecnico, in modo da compensare il rischio di un calo della produttività e della ragioni di scambio, o si investe direttamente nei settori che forniranno beni e servizi agli anziani. La seconda strategia è probabilmente quella più promettente.
Negli anni a venire, quindi, non sarà sufficiente la semplice crescita quantitativa del Pil o l’allungamento della vita lavorativa per garantire una vita decente ai pensionati, ma è indispensabile una riconversione del sistema produttivo per venire incontro alle esigenze di chi non è più in grado di lavorare. Ad esempio, non sarebbe male se i fondi pensione finanziassero la formazione di infermieri ed assistenti sociali; la diffusione di sistemi di domotica che rendano più facile la vita delle persone non autosufficienti; la realizzazione di strutture residenziali e di cura per i più sfortunati; la ricerca sulle patologie geriatriche; il miglioramento e la semplificazione dei servizi pubblici ed amministrativi rivolti agli anziani; il potenziamento dei servizi a domicilio per chi ha una scarsa mobilità; le forme di turismo, informazione, intrattenimento e socialità specifici per la terza età. Se tra vent’anni non saremo in grado di produrre tutto questo, dovremo rassegnarci a dipendere dall’estero anche per i servizi agli anziani oltre che per le fonti energetiche, così i future sulle badanti si affiancheranno a quelli sul petrolio nei giornali economici. Non a caso, già oggi, in qualsiasi ospedale, si svolgono macabre trattative per accaparrarsi in anticipo chi sta assistendo gli anziani in fin di vita. Nel frattempo, l’interscambio con l’estero del paese non è solo in deficit sui brevetti biomedici, sui farmaci, sulle reti e sull’elettronica (che sono necessariamente la base della domotica), ma anche in settori molto meno sofisticati, come protesi acustiche, lenti da vista, alimenti dietetici, ascensori e scale mobili, sedie a rotelle, servomeccanismi per letti, poltrone e avvolgibili, veicoli attrezzati. Se continua così, rischiamo di diventare un paese per giovani abitato da vecchi.
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