Insegnanti regionali doc, e test di dialetto per prendere la cattedra. La Lega si scatena sulla scuola, anche Gelmini annuncia graduatorie regionali. Eppure sono le scuole del Nord, piene di insegnanti che vengono dal Sud, le migliori nei test internazionali. E i numeri sui trasferimenti smentiscono gli allarmi
Lauree e abilitazioni non bastano, secondo la Lega, per fare l’insegnante. Ci vogliono altri due requisiti. Il primo è una residenza di almeno cinque anni nella regione in cui si chiede di insegnare. Il secondo è aver superato un esame di cultura, tradizioni, dialetto locale che dovrebbero essere le singole regioni a definire e gestire. Tutto ciò in un disegno di legge depositato lo scorso 30 marzo a firma dell’on. Paola Goisis, segretaria della commissione istruzione e cultura della camera, già insegnante di lettere e storia in quel di Padova. Ancorché livornese di nascita. Se tale peccato originale – Livorno non è proprio profondo Sud, ma certo non è la Padania santissima – abbia influito negativamente su qualità e risultati della sua esperienza professionale, l’onorevole non lo dice. Anche se per Davide Boni, capogruppo della Lega nel Consiglio regionale lombardo, non c’è da dubitare dei guasti – culturali, identitari, nutrizionali ? – inflitti a studenti e famiglie dal fatto che nelle scuole del Nord approdino continuamente insegnanti “che non sanno neanche cos’è la polenta”.
Ma è una cosa seria, questo disegno di legge (di cui si dice che potrebbe essere iscritto entro l’estate all’ordine del giorno), o questa idea che anche gli insegnanti, come le mogli e i buoi, debbano essere dei paesi tuoi è così insensata e inattuabile che non vale la pena parlarne? Contraria al dettato costituzionale, intanto, lo è di certo. Se l’amministrazione pubblica può, a parità di merito, decidere di dare priorità nelle assunzioni a chi è residente, per nessuna ragione invece può fare in modo che in Lombardia un siciliano con più titoli culturali e professionali venga scavalcato da un bergamasco che ne abbia di meno. Ma non ci si può fermare a questo. Ci sono anche altri motivi di discussione. Il primo è che già lo scorso luglio Goisis si era applicata, e con qualche successo, a far deragliare il disegno di legge sul governo delle istituzioni scolastiche e sullo stato giuridico del personale docente di Valentina Aprea, presidente Pdl della stessa commissione parlamentare. Guarda caso dopo che, sia pure in modo non proprio univoco e comunque limitato a una sola parte della proposta, si era intravista la possibilità di arrivare a qualche mediazione bipartisan. Essenziale a farla andare avanti, visto che il testo Aprea, in cui sono peraltro già contemplati per gli insegnanti albi regionali e assunzione diretta da parte delle scuole, è fermo da così tanto tempo (non c’è gran sintonia, è noto, tra l’ex sottosegretaria di Letizia Moratti e la ministra Gelmini) che i suoi sostenitori cominciano a perdersi d’animo. Ma allora Goisis non era andata oltre un test di “dialetto “ come condizione dell’ immissione in ruolo: così grottesco (quanti sono, e quanto diversi da una valle all’altra, i dialetti locali in Lombardia?) che perfino Maria Stella Gelmini si era potuta permettere di prenderne garbatamente le distanze. Oggi però, col trionfo leghista, il gioco si è fatto più duro. Il nuovo ddl, forzando i tempi del passaggio alle regioni della gestione del personale scolastico, contraddice apertamente la progressività e la cautela dell’intesa tecnica stipulata recentemente tra stato e regioni sull’attuazione del Titolo V. E alle regioni affida, in nome del federalismo, non solo la titolarità della contrattazione collettiva integrativa ma anche il ruolo strategico del reclutamento, finora di competenza esclusiva dello stato. Categoria “statale” per eccellenza , gli insegnanti vengono così quasi completamente “regionalizzati”. In un sol colpo, in sintesi, si materializzano i classici due piccioni . Da un lato una pesante ipoteca sul disegno Aprea, connotato del resto più da un’adesione alle suggestioni lombarde della sussidiarietà targata Compagnia delle opere che al duro regionalismo leghista di tipo veneto. Dall’altro la possibilità di riaprire i giochi, a proposito del Titolo V, rendendo più complicato , in una Conferenza stato-regioni uscita modificata dai risultati elettorali, il passaggio dall’accordo tecnico a quello politico. Piatto ricco, insomma, dall’esito incerto, ma da non sottovalutare.
C’è però forse qualcosa d’altro, di più concreto e stringente, dietro l’esasperato localismo del testo Goisis e le infuocate espressioni di ostilità di chi lo sostiene all’emigrazione intellettuale da Sud a Nord. Che nelle scuole del Nord ci sia un buon numero di insegnanti che vengono da altre aree del paese non è affatto una novità, fin dai primi anni settanta. Attualmente sono il 19,8%, solo 1 su 5, ma in Lombardia gli insegnanti nati nelle regioni meridionali sono il 31% (e un altro 9% viene da quelle del Centro). Sebbene i leghisti strepitino contro la vera o presunta maggiore facilità con cui sotto il Garigliano si ottengono diplomi, lauree, idoneità, iscrizioni agli ordini (e qualcosa di vero deve pur esserci, a vedere il curricolo dell’avvocato bresciano Gelmini Maria Stella), non pare proprio che da questa presenza aliena siano derivate particolari difficoltà , o specifiche disfunzioni. Sono notoriamente le scuole del Nord – dicono indagini internazionali e nazionali – quelle che assicurano i migliori risultati in termini di apprendimento.
E non regge alla prova dei numeri neppure il martellante argomento della discontinuità didattica che deriverebbe dalla cattiva abitudine degli insegnanti di provenienza meridionale di tornare precipitosamente al paesello subito dopo aver acciuffato un’immissione in ruolo in terra veneta o lombarda. L’anno scorso, documenta la Fondazione Agnelli, sulle circa 120.000 domande di trasferimento solo 8.000 erano da una regione all’altra e di queste solo 3.000 da Nord a Sud. Ma quel che conta è che alla fine, dei 72.000 effettivamente trasferiti, siano stati solo 692 gli insegnanti che dalle scuole del Nord Ovest e del Nord Est si sono spostati in quelle meridionali. E neppure si può dare per scontato che in tutti i casi si tratti effettivamente di rientri. Questo tipo di migrazione intellettuale ha, del resto, delle ragioni specifiche, e ampiamente note. Nel mercato del lavoro del Nord l’insegnamento ha sempre visto la concorrenza di altre professioni, in particolare per i laureati in materie scientifiche e tecnologiche, come indicano le tante graduatorie provinciali esaurite o in via di esaurimento e perfino, qua e là, gli incarichi affidati a neolaureati senza alcun titolo professionale. E’ per questo e per altri motivi che il mercato del lavoro scolastico in Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna è stato sempre più dinamico e ricco di opportunità che in altre aree del paese. Maggiore lo sviluppo delle scuole materne statali e comunali. Più diffuso nel primo ciclo il tempo pieno e altre tipologie di prolungamento orario. Più numerosi gli istituti tecnici e professionali con orari più lunghi, più discipline, e quindi più personale anche di tipo tecnico rispetto ai licei. E’ ancora la Fondazione Agnelli a calcolare che per un insegnante precario spostarsi al Nord significa accorciare l’attesa dell’immissione in ruolo di almeno due-tre anni. Anche oggi ? Certo, anche oggi, e per motivi che hanno a che fare soprattutto con altri tipi di migrazione.
Tra il 2007-2008 e il 2008-2009, nel sistema scolastico pubblico italiano c’è stata una diminuzione di circa 12.000 studenti. Ma è stato il Sud, dove il calo demografico non è compensato dalla presenza crescente dei figli degli immigrati, a perderne ben 52.000, mentre nel Nord il segno è positivo: più 18.500 nel Nord Ovest, più 19.500 nel Nord Est (e più 2.500 nel Centro). Così in Lombardia nelle graduatorie provinciali degli insegnanti precari gli iscritti non residenti sono il 44%, in Emilia Romagna il 42,5%, in Piemonte il 35%. L’on. Goisis e i suoi vorrebbero ricacciarli come barbari fuori dalle mura, anche a rischio di dover imbarcare insegnanti con titoli culturali e professionali più deboli. O almeno vorrebbero, come dichiara il governatore Cota che ha forse sentito dire che per certe discipline possono esserci liste insufficienti , dare priorità nell’assunzione in ruolo ai “regolari”, cioè ai regolarmente residenti da cinque anni. In singolare analogia con quel che ritengono si debba fare, in tempi di calo dell’occupazione, con i lavoratori stranieri immigrati. Dietro tutto ciò non c’è solo il territorio ridotto a fortino, la cittadinanza a certificato di residenza, la cultura a un impasto tra tradizioni locali e dialetti. Ci sono anche gli effetti di una crisi lunga e ostinata che può fare il miracolo. Può cioè far diventare più desiderabile anche un lavoro modestamente retribuito, ma a tempo indeterminato se di ruolo, come quello dell’insegnante. Anche tipico di quella fannullaggine statale così indigesta al di sopra del Po. E c’è forse anche la percezione dei guai occupazionali che si stanno determinando per effetto dei tagli che il governo di centrodestra, il loro governo, il loro Tremonti, impone alla scuola pubblica. Con tutto quello che può derivarne quando a perdere posto – e a perdere le speranze – siano anche insegnanti, di ruolo e precari, del Nord. Come succede sempre più spesso delle proposte leghiste, anche le più bizzarre e inattendibili, non si può più solo ridere.