Fiore all’occhiello della Lega trionfante, arriva il “permesso a punti”. Un percorso a ostacoli per restare in Italia. Tra i principali, la conoscenza della lingua, al cui insegnamento però si tagliano i fondi. Ma proprio sulla base del permesso a punti si può esigere dalla politica centrale e locale un investimento sui corsi per gli […]
E’ in dirittura d’arrivo, assicura il ministro Maroni, il “permesso a punti”. Il dispositivo previsto dal pacchetto sicurezza per cui lo straniero che chiede il permesso di soggiorno si impegna, al termine dei due anni di validità, a dimostrare non solo di avere un lavoro e di non aver commesso reati, ma anche di essere iscritto al Servizio Sanitario Nazionale, di essere titolare di un regolare contratto abitativo, di conoscere la Costituzione e la lingua italiana. Con un meccanismo, come a scuola, di crediti e debiti che contribuiranno variamente al raggiungimento di 30 fatidici punti. Va da sé che, in caso contrario, è prevista l’espulsione amministrativa.
Tra breve, dunque, non basteranno più le forti contrarietà o i commenti indignati prevalsi finora a sinistra. Sebbene ci siano ottime ragioni per ritenere che nel dispositivo ci sia più l’intenzione di imporre ulteriori ostacoli sulla via della regolarizzazione che l’avvio di lungimiranti politiche di integrazione, chi di immigrazione e di immigrati si occupa concretamente sa che la lunghezza d’onda deve essere un’altra: diversa ma non meno “politica” della prima. Che occorre soprattutto costruire, e su diversi versanti, le condizioni e gli strumenti perché quell’intenzione possa venire vanificata o almeno contrastata. La politica, del resto, non può vivere di sole denunce. Spicca, tra i temi da mettere finalmente a fuoco, quello delle opportunità offerte agli stranieri per acquisire una competenza linguistica. Spicca, anche indipendentemente dall’urgenza imposta dal dispositivo, per la sua portata strategica nelle politiche di integrazione. La conoscenza della lingua italiana, per i migranti, non è solo uno strumento indispensabile di inserimento sociale (lavoro, fruizione di servizi, coscienza dei diritti e dei doveri, rapporti con la burocrazia eccetera). E’ anche il primo essenziale elemento di inclusione, di interazione fra culture, di armonizzazione delle diversità. Condizione di uscita dalla minorità, strada obbligata per conoscere la cultura del paese di approdo (anche la Costituzione) e per essere riconosciuti come sua componente vitale. Ma in età adulta una buona competenza linguistica di solito non si acquisisce senza il sostegno di un apprendimento strutturato. E non sempre questo bisogno è avvertito da tutti e immediatamente. In molti casi, gli immigrati vivono una fase iniziale più o meno lunga di precarietà in cui l’unica possibilità di sopravvivere sono catene parentali, di familiari o connazionali, utilissime per agevolare l’inserimento ma in cui non si parla italiano. Sono molto diffuse anche le situazioni in cui sono prestazioni lavorative che non obbligano a disporre di strumenti linguistici complessi a ritardare l’esigenza di acquisirli, mentre non è rara, soprattutto per chi ha vissuto traumi particolari nell’abbandono della propria terra o vicissitudini particolarmente tormentate di viaggio, una vera e propria impossibilità psicologica di andare oltre parole e formule di una comunicazione povera e approssimativa. Sono tanti gli stranieri che approdano ai corsi di italiano per principianti anche dopo cinque o sei anni dall’arrivo in Italia. Ma, prima o poi, il bisogno si manifesta. Per migliorare le proprie condizioni; spesso, quando nascono figli che parleranno un’altra lingua; sempre, quando usciti dalla precarietà e dall’emergenza si decide che è qui che si vuole rimanere, che questo è il nuovo paese. Ma intanto, per anni, ci si è accontentati di un’”interlingua” che evolve a fatica, o che addirittura si blocca a un certo livello senza possibili miglioramenti. C’è anche questo dietro ai ritardi scolastici (dai 12 punti in più rispetto agli italiani nella scuola primaria fino ai 40 punti nella scuola secondaria superiore ) di tanti studenti di provenienza straniera. Anche se nati in Italia, e soprattutto se tra i 3 e i 5 anni non hanno frequentato la scuola dell’infanzia. La sottovalutazione che c’è stata finora di questo problema è, con tutta evidenza, figlia di politiche sull’immigrazione che non hanno messo al centro l’integrazione. Ed è soprattutto per questo – perché si legge ad occhio nudo lo scarto tra quello che finora il paese ha offerto e l’entità della domanda espressa e non espressa – che oggi la richiesta agli stranieri di esibire una competenza linguistica ha l’aspetto di una pretesa assurda o motivata unicamente da cattive intenzioni. Ma – ex malo bonum? – si dovrà provare a utilizzare proprio quella pretesa per cambiare la situazione. Per ottenere attività formative gratuite adeguate per numero, diffusione territoriale, qualità, accessibilità. Non è facile. Al momento non solo non è stato precisato quale competenza linguistica sarà richiesta (il framework europeo delle lingue prevede 6 livelli, ed è solo al terzo che si colloca un italiano di “soglia”), ma l’unico segno di investimenti in questa direzione è dato dal recente avvio di qualche progetto finanziato dal ministero degli interni per una prima formazione linguistica di poche migliaia di stranieri. A Roma, dove sono state coinvolte tramite l’Università per stranieri di Perugia sia le scuole pubbliche per adulti (i Centri Territoriali per l’educazione permanente) sia le scuole del volontariato religioso e laico, le ore di formazione finanziate sono al massimo 70, mentre un corso per principianti richiede almeno 100-120 ore, e le certificazioni finali riguardano solo i primi due livelli di competenza linguistica, quelli di “primo impatto ” e di “sopravvivenza “. I destinatari, del resto, non sono più di 1.500. Anche per il “permesso a punti”, dunque, si confermano per il momento le caratteristiche tradizionali delle nostre politiche per l’immigrazione, sempre di tipo emergenziale, sempre oscillanti tra interventi di assistenza e atti di controllo o di respingimento, sempre più spesso mirate a generare una cultura sociale di diffidenza e di rifiuto prima e più che percorsi virtuosi di accoglienza e inserimento. Inquieta, inoltre, che le sole strutture pubbliche che finora si sono fatte carico, spesso con intelligenza sociale e buona strumentazione professionale dell’insegnamento dell’italiano lingua 2, cioè i Centri Territoriali per l’educazione permanente (circa 200.000 iscritti stranieri l’anno), saranno tra breve “regolamentati” in modo da restringere fortemente e forse da eliminare del tutto le attività formative non riconducibili ai percorsi di istruzione finalizzati ai titoli di studio. Quindi proprio i corsi liberi, brevi, flessibili cui hanno avuto finora accesso gli stranieri. Una decisione ministeriale in netta controtendenza rispetto ai nuovi bisogni. Di cui però la discussione della sinistra politica sulla scuola, al momento, non sembra essersi accorta. Ma a quanto ammonta la domanda di apprendimento dell’italiano lingua 2? Non esistono, al momento, rilevazioni ufficiali. A Roma, dove gli stranieri regolarmente residenti sono oltre 300.000, è stata la Rete delle scuole migranti del volontariato a costruire, accanto a un censimento dell’offerta, una prima simulazione della domanda. Indicatori sono i dati di flusso (circa 20.000 soggiornanti in più l’anno), il numero dei titoli di soggiorno rilasciati dalla Questura (circa 100.000 nel 2008 tra nuovi rilasci, rinnovi, rifugiati, accolti per motivi umanitari), l’effetto-accumulo di quanti, in Italia da anni, non hanno mai frequentato corsi e sono probabilmente in possesso di strumenti linguistici solo rudimentali. Stimando una domanda annuale superiore alle 30.000 unità, la Rete è stata probabilmente assai prudente. E a che punto sta l’offerta? Nell’anno 2008-2009 i Ctp, struttura portante di quella pubblica, hanno intercettato 6.747 stranieri. L’Upter, la più importante Università popolare di Roma che fa corsi a pagamento ma con costi modesti, 250. Le associazioni di volontariato, 6417. Se anche a tutto ciò si aggiungessero le attività formative, dal peso difficilmente stimabile, messe in campo da organizzazioni sindacali, parrocchie, centri sociali, resterebbe pur sempre uno scarto negativo assai ampio, di oltre il 50%, tra offerta e domanda. Come si pensa, dunque, di sviluppare coerentemente con quanto prescrive il “permesso a punti” le opportunità di formazione linguistica per gli stranieri immigrati e di assicurare le attività di certificazione formale delle competenze? Se sul lato dei Ctp è del tutto improbabile un incremento per via ordinaria dei corsi di italiano lingua 2 sia per gli effetti del nuovo regolamento sia per la politica di restrizione degli organici del duo Tremonti-Gelmini, anche su quello delle scuole del volontariato ci sono problemi: gli insegnanti che lavorano a titolo gratuito non mancano e potrebbero anzi moltiplicarsi, ma a mancare sono spazi e aule che consentano corsi su tutta la durata della giornata e per tutta la settimana (è difficilissimo ottenerne anche nelle scuole inutilizzate il pomeriggio), risorse per i libri e il materiale didattico così come per la formazione specialistica dei docenti. Quella che però manca di più, al momento, è la risorsa della politica. A livello nazionale e anche nei livelli locali, con differenze solitamente non molto significative tra governi territoriali di centrosinistra o di centrodestra. E’ questo il punto.