Non solo partecipazione agli utili ma alle decisioni d’impresa. La discussione sulla democrazia economica va aggiornata alla luce dell’economia della conoscenza.
Con questo articolo vorrei aprire un dibattito, che spero partecipato, ampio e approfondito, sulla democrazia economica. La questione è all’ordine del giorno anche in Italia a causa della proposta del ministro del lavoro Sacconi e del ministro dell’Economia Tremonti di partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese. Dirò subito che questo progetto di profit sharing per me è negativo perché in questo modo i lavoratori (e le loro retribuzioni) sarebbero subordinati alle dinamiche di impresa senza però avere nessun potere decisionale; e perché divide i lavoratori delle aziende “buone” e competitive rispetto a quelle “cattive” e arretrate. Invece credo che forme avanzate di democrazia economica siano assolutamente positive e debbano essere inserite come obiettivo centrale nell’agenda del movimento sindacale. Infatti, nell’economia della conoscenza, in cui i knowledge worker costituiscono la maggioranza dei lavoratori e hanno la competenza di dirigere le aziende e l’economia, la questione della democrazia economica sta diventando fondamentale, sia per la difesa immediata e irrinunciabile degli interessi dei lavoratori sconvolti dalla crisi, che per sviluppare nel medio e lungo termine un’economia innovativa, equa e sostenibile. Non a caso, le nazioni più competitive e avanzate, come la Germania e la Svezia, hanno adottato forme (seppure ancora limitate e criticabili) di democrazia economica. Ma paradossalmente in Italia contro la democrazia economica sono schierati sia la Confindustria che la Cgil, il sindacato più attivo in difesa del lavoro.
È noto che la democrazia si ferma alle porte dei luoghi di lavoro. In generale il lavoro non è soggetto alle regole della partecipazione autonoma e paritaria, ma è invece soggetto al comando e alle gerarchie decise dall’alto. Questo è “il difetto” più grave del capitalismo e della democrazia rappresentativa. In nome dell’efficienza del comando unico, i diritti del management e della proprietà diventano esclusivi e dominanti sui diritti del lavoro. Però, dal momento che il lavoro è la più importante attività umana, anche un liberale moderato che crede nella democrazia dovrebbe essere favorevole alla sua introduzione nei luoghi di lavoro. Facciamo una breve storia della democrazia economica. Questa è invocata anche da chi si richiama alla dottrina sociale della Chiesa cattolica in nome della necessità morale di rispettare la dignità dei lavoratori. Tuttavia storicamente il capitalismo si è reso poco disponibile alle (blande e non insistenti) richieste dei sindacati cattolici.
La socialdemocrazia ha invece avuto maggiore successo. In Germania e in Svezia, i partiti socialisti al governo sono riusciti a imporre che i rappresentanti sindacali entrassero, anche se in posizione minoritaria, nei luoghi di comando delle aziende. In Germania dopo la seconda guerra mondiale il modello di co-determinazione è stato promosso dai socialdemocratici, e accettato dal partito democratico cristiano, anche per fare fronte alla minaccia comunista proveniente dal vicino e incombente blocco sovietico. Una legge approvata nel 1976 impone che i lavoratori abbiano il diritto di eleggere metà dei rappresentanti del Consiglio di Sorveglianza in tutte le aziende (comprese le multinazionali) che impiegano più di 2000 dipendenti. I sindacati tedeschi sono quindi coinvolti nelle strategie delle imprese e nelle questioni relative all’occupazione, all’organizzazione del lavoro e all’innovazione. La base indispensabile per la collaborazione è naturalmente la trasparenza sulle strategie aziendali. La democrazia economica, con tutti i suoi difetti e le limitazioni, è risultata conveniente sia per il capitale che per il lavoro. Per esempio, di fronte alla crisi del mercato dell’auto, piuttosto che accettare i licenziamenti, i sindacati della Volkswagen hanno concordato diminuzioni degli orari di lavoro per tutti i dipendenti. In Svezia i lavoratori eleggono due o tre rappresentanti nel comitato esecutivo delle aziende. Negli altri paesi la democrazia economica è sostanzialmente rimasta al palo.
Il problema è che in generale gli azionisti e i manager vogliono l’unicità del comando in nome dell’efficienza aziendale, non desiderano condividere il potere e le informazioni. Dal lato opposto, i sindacati comunisti europei hanno sempre condannato la cogestione considerandola come una forma di subordinazione dei lavoratori all’impresa e come un vincolo alle capacità di mobilitazione. I sindacati comunisti puntavano alla rivoluzione politica e non volevano “sporcarsi le mani” con i “padroni”. Anche dopo che l’illusione della rivoluzione è sparita, tuttavia la diffidenza di molta parte della sinistra verso le forme “socialdemocratica” di cogestione è rimasta intatta. Quindi paradossalmente, schierati in pratica sullo stesso fronte, sia i “padroni” che i sindacati più radicali – quelli generalmente più schierati nella difesa del lavoro – si sono opposti alla democrazia aziendale. Il risultato finale è però che gli azionisti e i top manager hanno avuto e hanno tuttora le mani libere nella gestione delle aziende, e che i sindacati hanno visto ridurre drasticamente il loro potere. Il lavoro è diventato sempre più precario e peggio pagato. E’ facile dimostrare che la strategia della completa autonomia del lavoro dalla gestione delle aziende ha portato a risultati negativi: infatti in tutti i paesi avanzati, eccetto in quelli scandinavi, negli ultimi decenni la quota di capitale sul reddito nazionale è cresciuta drasticamente rispetto alla quota del lavoro. La democrazia economica presenta molti rischi e non costituisce una bacchetta magica; ma senza democrazia economica è aumentata ogni asimmetria, sia di reddito che di informazione e di potere. Occorre prendere atto che la minaccia di conflittualità permanente (peraltro impossibile da agitare sempre e comunque, soprattutto nelle fasi, come questa, di crisi economica e di debolezza sindacale) è meno efficace della cogestione alla tedesca o alla scandinava. E’ quindi opportuno rivendicare forme avanzate di democrazia economica.
C’è un’altra ragione fondamentale per cui la democrazia economica sarà sempre di più all’ordine del giorno: nell’economia della conoscenza l’intelligenza diventa sempre meno concentrata ai vertici delle aziende e sempre più diffusa, grazie a fenomeni irreversibili come la scolarizzazione di massa e Internet. Nelle economie avanzate la grande maggioranza dei lavoratori è costituita da “knowledge worker” e non più dagli operai. E’ quindi facilmente prevedibile che le aziende innovative avranno sempre più bisogno di coinvolgere i lavoratori intellettuali nella gestione delle loro attività e che i lavoratori della conoscenza competeranno sempre di più con la proprietà per la direzione delle attività aziendali ed economiche. La direzione autoritaria non funziona più nell’economia della conoscenza, e i knowledge worker hanno invece le competenze per dirigere le aziende e l’economia. In maniera non solo intelligente e competitiva, ma anche equa e sostenibile.
La battaglia per la democrazia economica, per quanto importante e decisiva, si annuncia però tutt’altro che facile. Può cominciare per gradi: sarebbe importante che i rappresentanti dei lavoratori e degli utenti iniziassero a entrare nei Consigli di Amministrazione delle società che gestiscono servizi pubblici in monopolio. In queste società in particolare la presenza degli utenti, e non solo dei lavoratori, negli organismi decisionali è particolarmente significativo. Anche le società che gestiscono dei beni comuni, come le reti di comunicazione e di trasporto, dovrebbero prevedere la presenza dei rappresentanti dei lavoratori e degli utenti negli organi decisionali. La democrazia economica è particolarmente efficace nelle aziende ad alta intensità di capitale intellettuale, dove i knowledge worker generano il valore aggiunto delle attività, come i giornali, i mass media, le imprese hi-tech. Ma la democrazia si dovrebbe finalmente estendere a tutte le imprese private e pubbliche, anche se in forme diverse per le grandi e medie aziende da una parte e quelle piccole dall’altra.
Quest’articolo è una versione sintetica di un più lungo paper, che qui alleghiamo in pdf