Le prospettive di crescita dell’Eurozona appaiono fosche perché il proseguimento delle politiche di austerity prefigura un ulteriore avvitamento della spirale recessiva
Anche quest’anno, al netto delle discontinuità statistiche, il PIL del nostro Paese è destinato a diminuire in misura non irrilevante; forse non solo in termini reali ma anche nominali. Per avere una variazione reale nulla sarebbe necessaria una ripresa robusta dell’economia negli ultimi due trimestri dell’anno, dell’ordine dello 0,8 per cento: una prospettiva molto remota, visti gli ultimi deludenti dati pubblicati dall’ISTAT (riduzione dei consumi e della produzione industriale, calo della fiducia delle imprese e dei consumatori, aumento della disoccupazione, ecc.). Inoltre, poiché i prezzi tendono ormai a ridursi piuttosto che ad aumentare (ad agosto l’inflazione annua è stata negativa, malgrado l’aumento, a ottobre, di un punto dell’IVA e nel corso dell’anno di molte altre accise) è probabile che anche il dato nominale non superi di molto quello del 2013. Proseguirà inevitabilmente la crescita del rapporto debito/PIL.
La cattiva performance economica del nostro Paese non è una novità; secondo i dati Eurostat, la dinamica del PIL è stata inferiore a quella media degli altri paesi dell’Eurozona in ognuno dei dodici anni successivi all’introduzione dell’Euro e in particolare negli ultimi sei trimestri (cfr. tavv. 1 e 2). Tra il 2001 e il 2013 il PIL reale dell’Italia è diminuito di oltre il 2%, malgrado l’aumento di oltre 3 milioni di residenti, mentre è aumentato, in media, di oltre il 10 per cento negli altri paesi (del 13 per cento in Germania e del 12 per cento in Francia). Il confronto con il dato medio dell’Eurozona non è particolarmente penalizzante per l’Italia perché l’andamento dei paesi che hanno adottato l’euro come moneta è stato inferiore a quello registrato da tutti gli altri paesi europei, sia appartenenti alla UE, sia esterni (ad eccezione della Danimarca che però ha seguito una politica di cambio fisso della corona con l’euro). I dati rendono manifesto che l’economia italiana funziona molto male ma anche che i risultati dell’eurozona non sono soddisfacenti.
Nel nostro Paese la spirale economica recessiva è stata alimentata dall’idea, dimostratasi fallimentare, che l’economia di una nazione possa essere gestita come un’azienda privata. Più in generale, è fallita l’ideologia neoliberista che il mercato sia capace, da solo, di rendere economicamente efficiente per la collettività l’insieme di politiche, singolarmente efficienti, prese sulla base della prospettiva individuale. Gli effetti sul piano sociale di questo drammatico errore sono sotto gli occhi di tutti: il paese si è impoverito, la miseria si è diffusa anche sotto i livelli minimi di sussistenza e si è ampliata la disuguaglianza nella distribuzione del reddito.
Le prospettive appaiono altrettanto fosche perché il proseguimento delle politiche di austerity che si vanno delineando prefigurano un ulteriore avvitamento della spirale recessiva.
Da una parte si ventilano nuovi interventi strutturali, ossia di ulteriore precarizzazione e riduzione del costo del lavoro, dall’altro si programmano nuove manovre di contenimento della spesa. Sul piano aggregato l’effetto demoltiplicativo sarebbe sostanzialmente simile. Nel primo caso la diminuzione della domanda aggregata deriverebbe dalla contrazione della propensione al consumo e dei redditi, nel secondo la riduzione sarebbe in sé. Con entrambe le alternative, al calo della domanda seguirebbero la ridefinizione dei livelli di produzione e l’ulteriore diminuzione degli investimenti; in assenza di questi ultimi, necessari per adeguare la qualità dei beni allo sviluppo tecnologico, l’aumento della domanda estera atteso dalla diminuzione del costo dei fattori produttivi potrebbe risultare marginale. Senza aumento di prodotto, l’effetto netto sull’occupazione potrebbe essere negativo mentre gli esiti sulla finanza pubblica potrebbero essere trascurabili per la diminuzione delle entrate. Al proseguimento della fase recessiva seguirebbe inevitabilmente un appesantimento delle condizioni di finanziamento e l’aumento delle sofferenze bancarie.
La spirale sembra destinata a proseguire senza fine perché i parametri di convergenza europei, progressivamente più severi, sono pressoché irraggiungibili e dunque saranno sempre richieste nuove manovre di bilancio o interventi strutturali. L’immanenza di questa prospettiva permane sostanzialmente immutata malgrado l’allentamento temporale dei vincoli. Nell’attuale trappola della liquidità, appare plausibile che, come già sottolineato dal ministro delle finanze tedesco, la politica monetaria e finanziaria divenga sempre più impotente a contrastare la crisi, a meno che le operazioni di alleggerimento monetario consentano la ripresa degli investimenti nei paesi più in difficoltà.
Per superare la crisi, la Commissione europea in corso di insediamento intende avviare un piano di 300 miliardi in investimenti in infrastrutture. Il programma, rivitalizzando la domanda aggregata anche del nostro Paese, dovrebbe favorire il ribaltamento della spirale economica, da recessiva ad espansiva, anche mediante il miglioramento del clima di fiducia dei consumatori e delle imprese. Si tratta di un’iniziativa settoriale condivisibile ma difficilmente efficace se non si inquadra in un progetto istituzionale che tenga conto dei mutamenti socio-economici ed ambientali avvenuti nel recente passato.
Il processo di formazione della politica economica dell’eurozona è un gioco negoziale tra interessi delle singole nazioni e delle tecnostrutture finanziarie e politiche; il risultato rispecchia la forza dei partecipanti nella sostanziale assenza di controlli da parte di istituzioni democratiche. Il disegno istituzionale prevede infatti, oltre alla banca centrale, la sola riunione dei ministri dell’Economia e delle finanze (eurogruppo). L’assenza di luoghi istituzionali rappresentativi degli interessi dell’intera area – impedisce la formazione di una politica economica unitaria ed è pertanto la causa principale del progressivo degrado dell’area. Ciò si manifesta in maniera evidente quando le finanze o il sistema finanziario di uno stato entrano in crisi ed è previsto l’intervento della cosiddetta troika, (Commissione Europea, BCE, FMI), secondo uno schema che tende ad equiparare il paese in crisi ad un debitore privato prescindendo da una visione sistemica del paese e dell’intera zona euro.
Il deficit di democrazia si manifesta anche nella carenza di controlli sull’operato degli organi esecutivi. In Particolare, i Parlamenti nazionali, soprattutto dei paesi meno importanti, hanno perso ogni sovranità nel controllo dei rispettivi governi e delle politiche comuni. Nel nostro Paese Il Parlamento è ridotto a ratificare “quanto chiede l’Europa”, senza poteri contraddittori.
L’allargamento dell’eurozona all’intera unione europea, oltre che non all’ordine del giorno (non c’è ragione per cui i paesi che non adottano l’euro e la cui economia funziona meglio dovrebbero decidere di perdere la sovranità monetaria) non sembra da solo risolutiva dell’attuale “pasticcio istituzionale”. Il disegno dell’Unione europea, che aggiorna quello della preesistente comunità economica, è inadeguato al funzionamento di uno stato federale.
L’Unione europea comprende 28 paesi e prevede tre principali istituti: il Parlamento, la Commissione e il Consiglio. Il Parlamento è eletto a suffragio universale secondo leggi elettorali nazionali; il Consiglio è composto dai rappresentanti dei 28 Governi nazionali ed è presieduto a rotazione semestrale da ciascun paese membro; la commissione, il governo europeo, ma con poteri diversi rispetto a quelli nazionali, è nominata dal Consiglio seguendo uno schema spartitorio tra gli stati e il Parlamento ha il solo potere ostativo al momento dell’insediamento di ciascun commissario. Il potere legislativo è suddiviso attraverso procedure barocche ed inefficienti tra i tre organi; il potere esecutivo è condiviso dalla commissione e dal consiglio; il potere di indirizzo e controllo del Parlamento è limitato; soltanto i Parlamenti degli stati forti mantengono qualche ruolo nei confronti dei rispettivi governi.
Il disegno complessivo delle istituzioni europee rende molto difficile il processo formazione di una comunità coesa di individui; in particolare la presidenza a rotazione del consiglio consolida l’idea di un’Europa formata da stati che negoziano costantemente i propri interessi, mentre l’assenza di una legge elettorale unica sfavorisce il radicamento di un’identità continentale.
Poiché l’allargamento dell’eurozona all’intera Unione non può essere la soluzione, se si vuole che non si materializzi il rischio riportato di recente dall’Economist che alcuni paesi decidano di uscire dall’euro se proseguono stagnazione, disoccupazione e deflazione, occorre rifondare dalle radici l’assetto istituzionale dell’eurozona. Il deficit di democrazia non è solo una questione politica e sociale ma anche una nodo vitale per favorire il benessere materiale e spirituale delle persone e rilanciare il progresso economico lungo un sentiero equo e sostenibile.
In definitiva o l’eurozona evolve velocemente verso uno stato federale, con la creazione di uno stato che rilevi gran parte della sovranità degli stati membri e definisca in modo più efficiente il ruolo e i poteri della banca centrale oppure le prospettive di disgregazione aumentano di giorno in giorno. Per la realizzazione del nuovo stato è probabilmente necessario un progetto che passi per l’elezione di una assemblea costituente che abbia, tra l’altro, il compito di fissare i principi della convivenza comune, definire l’assetto istituzionale, regolare i rapporti con e tra gli stati membri. Non dimenticandosi che il nuovo stato deve costituirsi nell’ambito della cornice dell’Unione europea, che necessariamente non potrà rimanere invariata.