Una “bad bank” per fare ripartire il credito e l’economia, togliendo buona parte dei crediti deteriorati dai bilanci delle banche. Bella l’idea di levarli da lì. Ma malgrado i giochi di prestigio a cui ci ha abituato la “finanza creativa”, è difficile nascondere sotto il tappeto 150 o forse 300 miliardi di euro
150 miliardi di euro di sofferenze, 300 miliardi di crediti deteriorati. Questa la situazione delle banche italiane, che ha portato nei giorni scorsi il governatore della Banca d’Italia Visco a rilanciare l’idea di una “bad bank”. Semplificando, la proposta è quella di creare una struttura nella quale fare confluire questa montagna di crediti in difficoltà o inesigibili, in modo da rilanciare l’erogazione del credito e quindi l’economia.
In linea teorica, l’operazione potrebbe spezzare l’attuale spirale: le banche vedono le sofferenze aumentare, chiudono i rubinetti del credito, il che fa aumentare le difficoltà delle imprese e quindi le sofferenze, portando le banche a restringere ulteriormente le politiche creditizie e via discorrendo. Sofferenze, credit crunch e problemi delle imprese si avvitano l’uno sull’altro.
Non solo. Le banche devono rafforzare il proprio patrimonio, anche in vista dell’introduzione dei nuovi accordi, da Basilea III in poi, ovvero devono o aumentare il capitale sociale – cosa decisamente non facile in questa fase – o specularmente diminuire la massa degli attivi a bilancio. Disfarsi di una parte degli attivi, e di quelli di più dubbia qualità in particolare, permetterebbe di presentare bilanci più solidi.
Questo in linea teorica. Il problema è che malgrado i giochi di prestigio a cui ci ha abituato la “finanza creativa”, è difficile nascondere sotto il tappeto 150 o forse 300 miliardi di euro. Difficile prima di tutto capire quanto valgano oggi tali crediti. Per semplificare, una banca ha erogato un mutuo per 100.000 euro. Il mutuatario non paga più, o ha enormi difficoltà a pagare. La banca ha una garanzia, può provare a rientrare di parte dei soldi, ma se deve disfarsi di tale mutuo e rivenderlo a qualcun altro, come quantificarlo? Di quanto può sperare di rientrare chi decidesse di comprarselo? Oggi sul mercato il mutuo vale il 40% del suo valore originale? Il 70%? Zero?
È una questione fondamentale per capire chi dovrebbe pagare il conto della bad bank. Ecco alcune possibilità:
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Negli scorsi anni le banche hanno già corretto i propri bilanci per iscrivere potenziali perdite, ma per evitare di pubblicare dati preoccupanti molti crediti inesigibili potrebbero essere stati iscritti a un valore piuttosto “generoso”. Se un domani si scoprisse che il valore iscritto a bilancio non corrisponde a quello di mercato, le banche dovrebbero farsi carico di ulteriori perdite e rettifiche. Un risultato controproducente rispetto all’obiettivo di fare ripartire l’erogazione del credito.
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Per questo potrebbe essere lo Stato a costituire la bad bank e ad acquistare i crediti deteriorati a un valore relativamente alto. Se migliora il bilancio delle banche peggiora però quello dello Stato, il che è improponibile rispetto ai vincoli europei, e che in ogni modo farebbe ricadere il peso dell’operazione sull’insieme degli italiani, tramite un ulteriore aumento del debito pubblico.
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Per evitare tali problemi, le banche potrebbero rivendere i crediti deteriorati a fondi, soprattutto esteri, specializzati nell’acquistare debiti inesigibili a un prezzo scontato per poi provare a rientrare. I crediti che potrebbero essere ceduti a un valore relativamente alto sarebbero quelli su cui esistono garanzie reali e ipoteche “solide”. I fondi che dovessero acquistare tali crediti eserciterebbero poi enormi pressioni sui debitori per potersi rifare in qualche modo, il che significa andare a pignorare la casa, il capannone o gli impianti messi a garanzia. Il rischio quindi è di un impatto molto pesante su quei cittadini e imprenditori che non riescono a rientrare delle loro esposizioni bancarie e un acuirsi della crisi proprio per quel sistema di piccole e medie imprese che si vorrebbe aiutare con tutta l’operazione.
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Forse per superare queste difficoltà, una possibilità ventilata negli scorsi giorni è quella di fare intervenire la Cassa Depositi e Prestiti. Da un lato è controllata dal ministero del Tesoro, ma dall’altra il suo bilancio è fuori dal perimetro contabile dello Stato. Ma veramente qualcuno pensa che accollare alla CDP – che si alimenta dei risparmi di milioni di clienti delle Poste – una montagna di debiti di cattiva qualità può essere una soluzione accettabile? La CDP non può diventare la “discarica” delle banche, né la mucca da mungere a seconda dei desiderata del governo di turno. A pensare male, inoltre, il conflitto di interessi è fin troppo evidente: la CDP ha tra i soci una sessantina di Fondazioni bancarie, che guarda caso sono le stesse Fondazioni che continuano a detenere di fatto il controllo di molte delle banche italiane che dovrebbero disfarsi delle sofferenze vendendole – o svendendole – proprio a CDP.
Chiaramente le ipotesi presentate sono estremamente semplificate, e sono possibili una pluralità di soluzioni differenti o intermedie. Sarebbe però necessario, prima di pensare di procedere, aprire un vero dibattito pubblico e chiarire quali sono le idee sul tavolo. Le notizie trapelate fino a oggi da governo e Banca d’Italia sono al contrario arrivate con il contagocce. Peggio ancora, il brutto precedente della rivalutazione delle quote di Banca d’Italia tramite Decreto Legge e senza un dibattito parlamentare non porta certo all’ottimismo, mentre è forse meglio stendere un velo pietoso su precedenti come la bad company dell’operazione Alitalia.
In attesa di maggiori informazioni, l’unica speranza è che non ci sia qualcuno che pensi di fare sparire centinaia di miliardi di euro con un colpo di bacchetta magica, per poi scoprire che il gioco di magia è consistito nello spostare tali debiti sulle nostre spalle.