Il Fondo monetario apre uno spiraglio sulla possibilità di controllare i movimenti di capitale. Imparando una lezione dalle crisi finanziarie e rompe il dogma della liberalizzazione a tutti i costi. Ma le politiche restano indietro
A vedere il bicchiere mezzo pieno, è un segnale che finalmente il pendolo sta tornando indietro. Dopo trent’anni di neoliberismo in cui per definizione i mercati devono essere lasciati liberi e gli Stati farsi da parte, anche le istituzioni internazionali iniziano lentamente a rendersi conto che delle regole sono necessarie.
E non delle istituzioni qualsiasi. Parliamo di quel Fondo Monetario Internazionale che ha incarnato lo spirito stesso delle dottrine neoliberiste e le ha promosse, o più spesso imposte, nella gran parte del pianeta. Nei giorni scorsi proprio l’FMI ha pubblicato un paper intitolato “The liberalization and management of capital flows: an institutional view” (la liberalizzazione e la gestione dei flussi di capitale: uno sguardo istituzionale).
Se era quasi scontato trovare il termine “liberalizzazione” sin dal titolo, desta scalpore la parola “gestione”. Scorrendo il documento si legge che “i flussi finanziari comportano anche dei rischi che possono essere amplificati da debolezze nelle infrastrutture istituzionali e finanziarie dei Paesi”. Soprattutto, “non c’è nessuna presunzione sul fatto che una piena liberalizzazione sia un obiettivo appropriato per tutti i Paesi in ogni momento”. A fronte di un mutamento repentino dei flussi finanziari in entrata o in uscita da un Paese, delle politiche pubbliche possono essere “appropriate”. Tra queste vengono considerate delle politiche macroeconomiche di varia natura, e, udite udite, “in alcune circostanze delle misure di gestione dei flussi di capitale possono essere utili”.
Il contesto viene subito chiarito: parliamo di politiche pubbliche come strumento di emergenza, limitato nel tempo e negli scopi, la piena liberalizzazione è comunque positiva e via discorrendo. A vedere il bicchiere mezzo vuoto, a fronte della devastante crisi finanziaria degli ultimi anni, quello che suona quasi come un mea culpa dell’FMI è assolutamente limitato e terribilmente lento.
Al contrario, tra le misure proposte per regolamentare la finanza, una delle più importanti e urgenti è proprio la reintroduzione di controlli sui flussi di capitali, in modo da evitare che alla prima difficoltà gli stessi capitali possano fuggire, trascinando un Paese o un’intera regione nel baratro com’è avvenuto, solo per citare alcuni esempi tra i molti possibili, nel Sud-Est asiatico negli anni ’90, in Argentina a cavallo del secolo, o ancora in Grecia negli ultimi anni. Non a caso la Malesia, unico Paese che nel 1998 introdusse dei controlli sui capitali in uscita, è stata la nazione relativamente meno colpita rispetto alle altre “tigri asiatiche”. Dei controlli sarebbero altrettanto fondamentali per i Paesi destinatari di tali flussi e che si ritrovano dal nulla enormi capitali in ingresso, con la creazione di bolle speculative che provocano instabilità e rapido aumento dei prezzi, fino allo scoppio della bolla stessa e alla conseguente fuga dei capitali verso altre regioni. È in questo modo che il circo della finanza si alimenta delle continue crisi e dell’instabilità che esso stesso provoca.
In questo quadro ogni politica pubblica di rilancio dell’economia è inefficace, se non controproducente. Non ha senso invocare politiche keynesiane o neo-keynesiane in una situazione di abbattimento dei controlli sui movimenti di capitale. Lo stesso Keynes chiarisce il concetto quando segnala che si può liberalizzare tutto ma non la finanza. “Non si può cavalcare la tigre”, è l’efficace metafora. Ogni politica di intervento pubblico si tradurrebbe unicamente in una fuga di capitali verso i Paesi che offrono nel brevissimo termine le condizioni più vantaggiose (spesso dei paradisi fiscali).
Uno degli strumenti più efficaci per introdurre dei controlli sui movimenti di capitali è la tassa sulle transazioni finanziarie sostenuta a gran voce da moltissime reti e organizzazioni della società civile internazionale, e in Italia dalla campagna zerozerocinque. Una piccola tassa che non scoraggerebbe gli investimenti di lungo periodo ma andrebbe a colpire proprio i capitali speculativi e il “mordi e fuggi” di chi sposta enormi quantità di denaro alla ricerca del massimo profitto nel più breve tempo possibile. La proposta di introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie oggi è finalmente in discussione su scala europea. L’obiettivo sembra però quello di generare un reddito. La tassa viene pensata in modo da minimizzare i possibili impatti sui mercati, mentre all’opposto uno dei suoi principali obiettivi dovrebbe essere quello di frenare la speculazione e più in generale di sottoporre una finanza ipertrofica a una severa cura dimagrante.
Su questo l’Europa sembra ancora non volerci sentire. Nel momento in cui lo stesso FMI inizia a riconoscere i propri errori, l’UE continua a sostenere una piena liberalizzazione dei flussi di capitale, sia internamente sia nei negoziati con l’esterno, e con i Paesi del Sud del mondo in particolare. Come i soldati fantasma giapponesi, che anni dopo la fine della seconda guerra mondiale continuavano a combattere su sperdute isole del Pacifico, l’UE rimane ferma su posizioni indifendibili. La speranza è che questa nuova ricerca dell’FMI possa contribuire a incrinare le granitiche certezze dei burocrati europei. Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, è un primo spiraglio verso un drastico cambiamento di rotta delle politiche pubbliche, che possa chiudere una volta per tutte la fallimentare stagione neoliberista.