Il Consiglio europeo si ostina sulla strada dell’austerità fiscale, sbagliata e controproducente. Ma anche senza cambiare rotta, potrebbe fare qualcosa di più utile, nella situazione data: un accordo sulla tassazione di rendite e profitti
L’Europa non cresce, lo sappiamo. Con la recessione, ci sono minori entrate fiscali, ma anche maggiori spese per ammortizzatori sociali, maggior peso del debito in rapporto al prodotto interno lordo (Pil). Anche se non ci si indebita di più, basterà che i tassi di interesse sul debito esistente siano superiori a quelli di crescita economica, come è il caso per praticamente tutti i paesi europei, e il rapporto debito/Pil cresce. In Spagna e Italia, con l’economia in caduta libera e i tassi oltre al 6%, la situazione è insostenibile nel medio periodo.
E su questo sfondo che il Consiglio europeo di giovedi discuterà di nuove regole per la disciplina di bilancio, quelle già approvate in sede europea (il cosiddetto fiscal compact) e le nuove proposte sulla “fiscal union”. Le prime sono estremamente stringenti e chiedono sostanzialmente il pareggio di bilancio. Qualcosa che anche paesi fiscalmente responsabili come l’Austria non hanno mai raggiunto negli ultimi quarant’anni. Non che il pareggio di bilancio sia impensabile. In tempi di boom, potrebbe essere un obiettivo, così da lasciare spazio per politiche economiche anti-cicliche in tempi di crisi. Ma i dati parlano chiaro: introducendo il pareggio di bilancio permanente si entra in un territorio inesplorato con conseguenze quasi certamente negative se il consolidamento fiscale viene raggiunto in un periodo di recessione, quando i tassi d’interesse sono vicini allo zero per i paesi che hanno una propria moneta e mancano investimenti da parte del settore privato. Esattamente il tipo di recessione in cui ci troviamo in questo momento.
Una recessione causata da un crollo della domanda aggregata e non dall’eccessivo debito pubblico, nè tantomeno da problemi dal lato dell’offerta aggregata. Non è stato infatti uno tsunami a fermare le fabbriche e i lavoratori negli ultimi anni, ma il crollo dei consumi, degli investimenti e dell’export, per l’appunto la domanda aggregata. Negli Stati Uniti, da dove la crisi è partita, non è stato il debito federale l’elemento scatenante, ma l’eccessivo debito privato. Paesi come Spagna e Irlanda poi, tra gli stati maggiormente colpiti dalla crisi in Europa, avevano un attivo di bilancio nei tre anni precedenti la crisi e un debito pubblico attorno al 30% del Pil (2007), tra i più bassi nell’eurozona.
Eppure nessuno farà queste semplici considerazioni al Consiglio europeo. Partendo da presupposti sbagliati, la risposta di politica economica, non ha potuto che essere controproducente. E c’è il rischio che rimarrà tale per parecchio tempo, se si considera l’assordante mancanza di leadership intellettuale nel dibattito interno all’élite, ai governi e alle istituzioni europee e la sorprendente riluttanza a prendere in considerazione paradigmi – diversi dal “pensiero unico” neoliberista – che riescano a spiegare la crisi, le sue cause e le sue conseguenze.
Anche nel solco del paradigma attuale, comunque, sarebbe possibile agire per limitare i danni. Se le scelte dei governi saranno davvero limitate all’alternativa tra aumento d’imposte e diminuzione di spesa, c’è una voce di bilancio che potrebbe contribuire in maniera significativa al raggiungimento di questo obiettivo: quello che nei libri di contabilità nazionale viene definito ‘gross operating surplus’, ovvero rendite e profitti.
Con la liberalizzazione dei movimenti di capitale e l’avvento delle nuove tecnologie, profitti e investimenti si sono dispersi su scala globale, ma seguendo una logica ben precisa: minimizzare il pagamento d’imposta. Quello che forse non è del tutto chiaro ai contribuenti europei, è che anche all’interno della stessa Unione Europea vi sono differenze enormi nel livello di tassazione d’impresa e di capitale. Persino imprese d’oltreoceano come la Apple, registrano gran parte dei propri profitti Irlanda e Olanda, triangolandoli nelle isole Cayman (territorio britannico), così da pagare una frazione delle tasse (un tasso effettivo inferiore al 10%) che sarebbero dovute ai governi dei paesi di origine. Tutto ciò – ed è la cosa più sorprendente – avviene in modo assolutamente legale.
Nel solo stato del Lussemburgo, uno dei principali centri finanziari offshore in Europa, c’e’ una differenza di circa 1.000 miliardi di dollari tra gli attivi (assets) di proprietà straniera dichiarati al Fondo Monetario Internazionale e i corrispondenti passivi (liabilities). In contabilità, ad ogni attivo deve corrispondere un passivo e la discrepanza tra i due include un margine di errore e attivi non dichiarati. Una simile discrepanza, non a caso, riguarda ancora le Isole Cayman. Per dare un’idea della grandezza di questi flussi, i fondi non dichiarati in questi due centri ammontano all’equivalente del Pil italiano.
Di fronte a queste cifre, se la Commissione europea volesse veramente aiutare in maniera ‘strutturale’ i paesi membri dell’Unione Europea a ridurre il deficit pubblico, si potrebbe fare molto. La Commissione potrebbe, ad esempio, far sedere i ministri delle finanze attorno a un tavolo e guidarli verso un accordo sull’armonizzazione della tassazione di rendite e profitti. Sarebbe incoerente che governi che hanno deliberatamente ceduto sovranità in aree tanto importanti quanto quella monetaria e commerciale, si appellino al principio di competenza nazionale per opporsi ad una proposta che miri a rafforzare il mercato unico limitandone insostenibili comportamenti opportunistici al suo interno.
D’altra parte, rendite e profitti sono trasferibili da un paese all’altro con un ‘click‘. L’Europa non può che rimetterci se ogni paese continuerà ad andare per conto proprio. Un corollario della teoria dei giochi ideata da John Nash – il famoso matematico del film ‘A beautiful mind’ – è che la mancanza di coordinamento in situazioni potenzialmente conflittuali porta a una situazione sub-ottimale. Quello che non si potrà mai raggiungere in assenza di coordinamento da parte delle istituzioni europee è esattamente quello di cui ci sarebbe bisogno: una tassazione uniforme di rendite e profitti che limiti la possibilità di free riding e una corsa al ribasso tra i paesi.
Oltre a contribuire al risanamento dei conti pubblici, l’armonizzazione della tassazione di rendite e profitti aiuterebbe a riequilibrare la tassazione del reddito e ridistribuire la ricchezza dopo decenni di progressiva concentrazione di entrambi nelle mani di pochi, e aprirebbe spazi per ridurre le tasse sul lavoro, contribuendo a rilanciare i consumi e l’occupazione. Tante buone idee che il Consiglio europeo del 28 e 29 giugno non vorrà discutere.