L’Italia cerca di mantenere un rapporto privilegiato con la “nuova Libia”. Ma dovrebbe prima fare i conti con gli errori compiuti con le politiche migratorie
La caduta del leader libico Muammar Gheddafi e del suo regime è stato uno degli eventi più importanti e significativi nell’ambito della primavera araba. La guerra civile che ha opposto lealisti contro ribelli lungo tutto il territorio nazionale ha stravolto completamente l’assetto politico e sociale del paese, che oggi arranca per trovare una direzione che sia in qualche modo democratica. Al di là delle questioni interne, la politica estera libica sembra invece essersi rapidamente stabilizzata: il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) – l’organo politico instaurato dopo la caduta di Gheddafi e responsabile del governo provvisorio in vista delle elezioni previste per giugno – si è infatti impegnato a rinsaldare i rapporti con l’estero, soprattutto con gli attori dell’area mediterranea.
Tra questi, l’Italia è stata un partner privilegiato, soprattutto nell’ultima fase del regime di Gheddafi. Lo dimostra il caso dell’Eni, che si è aggiudicata nel corso degli anni gran parte delle esportazioni provenienti dai grossi giacimenti di gas e di petrolio libici. Negli ultimi anni poi, il governo Berlusconi aveva stipulato accordi di vario tipo con il “raìs”: tra il 2008 e il 2011 più del 30% dell’export libico era diretto verso l’Italia, e importanti aziende italiane (prime fra tutte Finmeccanica, Ansaldo ed Impregilo) erano impegnate in ingenti investimenti, commissionati per lo più dal governo italiano per la costruzione di infrastrutture e per la fornitura di servizi destinati ad un paese che era divenuto col tempo il più ricco del continente africano. Per di più gli accordi siglati da Berlusconi hanno legato in modo sempre più stretto le finanze italiane alla Libia: la Lafico, compagnia di investimenti libica, ha acquistato circa il 7% di Unicredit, divenendo così il principale azionista del primo gruppo bancario italiano; senza contare le partecipazione dei fondi libici a quote azionarie di Juventus e Fiat.
Tali accordi tuttavia si sono trasformati con il tempo in uno strumento di dipendenza economica e politica dalla figura di Gheddafi. La posizione privilegiata dell’Eni rispetto ad altri operatori stranieri, gli investimenti delle aziende italiane e il “rapporto speciale” che legava Berlusconi a Gheddafi non sono state elargizioni gratuite: come in tutti i rapporti economici e politici la contropartita deve essere all’altezza, e in questo caso è stata forse fin troppo onerosa. Il famoso “accordo di amicizia” concluso da Berlusconi e Gheddafi nel 2008 prevedeva infatti, come pilastro fondamentale, la collaborazione per il controllo dei flussi migratori dalla Libia. Un pilastro quanto mai traballante, se si considera che il controllo libico delle coste mediterranee e dei confini meridionali altro non era che un continuo eccidio di migranti provenienti da tutto il continente africano, lasciati morire in mezzo al deserto, se non addirittura in veri e propri “lager” dove venivano deportati e torturati (come sostengono numerosi rapporti di Human Rights Watch o di Amnesty International). Molti invece venivano abbandonati al proprio destino nelle acque del Mediterraneo, a causa dei respingimenti operati dal governo a ridosso delle coste italiane.
A questo proposito la recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (già definita una “pietra miliare” da Amnesty International), il 23 febbraio scorso ha stabilito un importante precedente dichiarando illegittimi i respingimenti. La sentenza si riferisce in particolare ai respingimenti del 2009, quando la Guardia Costiera italiana rimandò in Libia un barcone carico di duecento migranti senza prima averli identificati e senza aver ascoltato le loro eventuali richieste di asilo. Tra loro, 24 hanno in seguito fatto ricorso contro l’Italia presso la Corte. Con i respingimenti, sono state violate in particolare due convenzioni: l’art.33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del ’67, che sancisce il divieto di espulsioni e respingimenti collettivi senza prima aver accertato le condizioni e le identità dei soggetti respinti; il protocollo n.7 del 1984 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che si rifà al precedente articolo, e l’articolo 3 della stessa convenzione che impedisce trattamenti inumani e degradanti. Il governo sarà dunque obbligato a devolvere la cifra di 15mila euro ad ognuno dei 22 migranti che hanno vinto il ricorso (due dei ricorrenti hanno nel frattempo perso la vita).
Il presidente Monti ha sostenuto di voler tenere conto della sentenza della Corte europea, ma sembra interessato soprattutto alla collaborazione economica con la Libia. Per questo, ha cercato di instaurare un solido rapporto con i dirigenti del Cnt. Appena un mese dopo il suo insediamento, il neo presidente del Consiglio ha ricevuto la visita del presidente del Cnt, Moustafa Abdel Jalil, per confermare l’accordo di amicizia italo-libico; il 21 gennaio Monti ha effettuato la sua prima visita ufficiale in un paese extra europeo proprio in Libia, questa volta al cospetto del temporaneo capo del governo Abdel Rahim Al-Kib. Degna di nota in questa occasione è la presenza (a fianco dei ministri degli Esteri e della Difesa) dell’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, a sottolineare che governo e aziende agiranno di concerto per assicurare la ripresa delle attività italiane in Libia e dei rapporti diplomatici tra i due paesi.
Il nuovo establishment libico intende però rinegoziare tutti i rapporti economici e strategici attivi durante il regime, affinché siano “a favore del popolo libico”. E in quest’ottica la vicinanza italiana al vecchio regime non è vista di buon occhio da molti esponenti del Cnt. Inoltre, in questi mesi tutti quei concorrenti che con Gheddafi non avevano margine di manovra si stanno facendo avanti, prima di tutti la Francia, che dopo il fallimento diplomatico in Tunisia (dovuto al mancato appoggio alla rivoluzione e alla palese connivenza col regime di Ben Ali), cerca in tutti modi di assicurarsi un ruolo importante nella sponda sud del Mediterraneo intaccando, con le compagnie Elf e Total, il monopolio energetico detenuto fino a questo momento dall’Eni. Dal punto di vista politico la necessità di “ingraziarsi” il nuovo establishment libico è stata palesata dai capi di governo di Regno Unito e Francia che subito dopo la morte del “raìs” si sono affrettati a congratularsi col nuovo governo provvisorio. Tutto questo comporta la disgregazione del “rapporto speciale” del governo e delle aziende italiane con la Libia. L’Eni – che con un azione continua di pressione politica è riuscita a riprendere i livelli di produzione di petrolio e gas del periodo pre-bellico – è consapevole di non godere più di un monopolio di fatto, mentre alle altre aziende italiane non è più assicurato un trattamento di favore per gli investimenti in terra libica. Infine, La posizione italiana risulta compromessa anche in termini diplomatici come dimostra la sentenza della Corte europea del 23 febbraio, che certifica inequivocabilmente le colpe del governo nelle azioni di contrasto all’immigrazione “clandestina”.