La crisi della Kodak sembra esaltare le virtù del capitalismo e della concorrenza. Ma i dati ci raccontano la storia di un capitalismo inerziale
L’interesse mediatico, anche non specialistico, che sta suscitando il vicino fallimento della Kodak[1] merita una riflessione non solo da parte dei nostalgici della fotografia su pellicola, ma anche da parte di chi vuol riflettere sugli attori principali del capitalismo moderno. Un articolo di Sandro Trento[2] apparso giorni fa sul “Fatto Quotidiano” commenta così il fallimento della Kodak:
“Nessun colosso di mercato è al sicuro per sempre rispetto ai mutamenti che derivano da innovazioni radicali. Questo è il bello del capitalismo: la minaccia di ricambio, la possibilità per nuovi imprenditori innovativi di entrare sul mercato e di distruggere i giganti che hanno dominato fino a quel momento. Nessun sistema nella storia dell’uomo ha mai conosciuto prima un simile processo di distruzione creatrice.”
Il concetto Schumpeteriano della distruzione creatrice è noto quanto affascinante. Schumpeter sosteneva che per fare spazio al nuovo, in un sistema con risorse finite, sia necessario eliminare il vecchio per liberare quelle risorse necessarie a nuove forme organizzative. Funziona così con le imprese: se trattenute in vita con sovvenzioni statali, leggi ad hoc o barriere all’entrata, si appropriano di un surplus che potrebbe essere distribuito ai consumatori (qualcuno preferisce dire alla società), occupano mercati ‘drogati’ e manodopera, competenze e risorse fisiche e finanziarie che sarebbero necessarie alla nascita di nuove imprese. Ma quanto e a che livelli il meccanismo della distruzione creatrice è davvero in opera nel capitalismo moderno? Dando un’occhiata alla classifica delle maggiori multinazionali nel mondo, sembra che lo scalpore mediatico che sta suscitando il fallimento della Kodak sia piuttosto la riprova di un capitalismo con forti componenti immutabili. Un capitalismo che si stupisce di fronte al fallimento di un tale colosso perché abituato alla presenza ai vertici degli stessi nomi.
Ecco alcuni dati. Rimanendo nel settore fotografico, nonostante l’introduzione di un’innovazione radicale come la fotografia digitale alla fine degli anni ‘90, negli ultimi 50 anni le principali aziende sono rimaste per lo più le stesse con pochissimi casi di acquisizioni o join venture per lo scambio di tecnologie tra multinazionali già esistenti. Sony acquisisce Minolta, Leica fa accordi di collaborazione con Panasonic e Karl Zeiss con la stessa Sony per la fornitura di obiettivi ottici. Nessuna nuova impresa entra significativamente nel settore, da sempre dominato da Canon e Nikon.[3] Se allarghiamo lo sguardo alle prime cinquanta multinazionali statunitensi classificate da Fortune[4] per numero di addetti, profitti e fatturato, dal 1955 al 2011 le imprese ‘leader’ sono in buona parte le stesse all’interno degli stessi settori. Considerando le Top 50 dell’economia statunitense, si nota come almeno la metà delle compagnie siano rimaste le stesse nel periodo considerato, con una forte resilienza in particolare delle compagnie finanziarie, mentre i cambiamenti nelle posizioni di classifica per grandezza o profitti sono avvenuti solo attraverso l’introduzione di nuovi settori, in particolare la nascita epocale del settore ICT. Queste poche e parziali informazioni sembrano rivelare una forte inerzia delle strutture di mercato settoriali e un basso ricambio dei principali attori economici ai vertici dell’economia mondiale.
Il meccanismo della distruzione creatrice potrebbe però funzionare ai livelli più bassi, contribuendo alla vitalità ed efficienza del tessuto economico diffuso e locale. Qualche indicazione relativamente a questo punto si può trarre da “La classifica delle principali imprese marchigiane”.[5] Le Marche sono una piccola regione dall’imprenditorialità diffusa, fatta di piccole e medie imprese la cui dinamicità è stata oggetto di analisi di un’intera generazione di economisti.[6] Anche qui il ricambio della struttura portante dell’economia marchigiana non sembra essere il tratto dominante della sua dinamica evolutiva, con almeno 6 imprese sempre ai vertici negli ultimi 20 anni considerando tutti i settori produttivi della regione.
Pur se tratteggiata con dati parziali, la situazione sembra mostrare una forte componente di continuità con importanti dinamiche inerziali e cumulative, piuttosto che rigenerative. La permanenza di molte compagnie ai vertici delle classifiche per numero addetti, fatturato, profitti, impatto culturale ha generato l’accumulazione di un surplus che di fatto è stato sottratto alla società mondiale producendo imbarazzanti divari di ricchezza. L’attuale agonia del capitalismo – o, per concedersi ad uno slogan attuale, del 99% della società occidentale – può essere in realtà tradotta nella sua incapacità di rinnovarsi e rimescolare la sua ricchezza, da troppo tempo in mano allo stesso 1%.
Né Schumpeter né Hayek ci hanno detto qual è la soglia oltre la quale il protrarsi di una situazione del genere possa far collassare gli equilibri sociali del capitalismo. Di certo c’è che le capacità allocative di risorse, influenza politica e potere (in senso marxsista) sono già degenerate da tempo e mostrano evidenti problemi nel far funzionare a tutti i livelli quella distruzione creatrice che forse ha poco di democratico.
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[4] http://money.cnn.com/magazines/fortune/fortune500/2010/performers/companies/biggest/employees.html [5] Si veda la classifica delle principali imprese marchigiane, stilata annualmente dal 1986 da Valeriano Balloni e Donato Iacobucci per conto della Fondazione Aristide Merloni: http://www.fondazione-merloni.it/osservatorio.php [6] Il riferimento è agli studi seguiti alla scuola di Arnoldo Fuà e Giacomo Becattini sull’imprenditorialità diffusa e i distretti industriali nell’area Nord Est e Centro dell’Italia.