Nel progetto di riforma dell’Ue a cura di Juncker, Tusk, Dijsselbloem, Draghi e Schulz, la futura politica economica dell’Unione rischia di essere peggiore di quella odierna
L’Europa è fallita nel momento più delicato della sua storia. La crisi del 2007 poteva essere una occasione storica per traguardare orizzonti degni del progetto dei padri costituenti. Con la crisi del 2007 si sono ampliate ancor più le divergenze tra i paesi europei in misura insopportabile, favorite anche dalla moneta unica. Se prendiamo il PIL pro-capite (2010=100) dal 2007 al 2014 si manifesta il fondamentale fallimento delle politiche europee, in assoluto e relative se confrontate con quelle adottate oltreatlantico. Queste politiche hanno allargato le diversità ed eroso quel poco di buono che il progetto europeo poteva preludere. La Germania aumenta il PIL pro-capite di 3,6 punti ed è, sostanzialmente, l’unico paese a migliorare la propria posizione. Chi perde più posizioni? Sono proprio i paesi che adottano pedissequamente le politiche di austerità imposte da regole europee sempre più rafforzate e vincolanti: la Grecia perde 26 punti, Cipro 18,1, l’Italia 10,9, la Spagna 7,3, il Portogallo 6,2 punti. Proprio nel momento in cui occorreva manifestare la maggiore solidarietà l’Europa gettava le basi del suo fallimento.
La soluzione alla crisi è stata trovata nel fiscal compact, nella odiosa norma che istituzionalizza il pareggio di bilancio, nella riduzione del debito di un ventesimo della quota che eccede il 60% del PIL. L’impianto del fiscal compact, come quello di altri trattati ed accordi intergovernativi, ha compromesso il governo dell’economia europea, ha impedito di affrontare shock asimmetrici, ha aggravato lo stato di crisi e generato una depressione persino superiore a quella del 1929. Keynes è stato riposto in soffitta, in alcuni casi persino bandito dalle Costituzioni. Lo strumento di un adeguato bilancio europeo che assolva ai compiti dell’aggiustamento è stato depotenziato, portato sotto l’1% del PIL comunitario, proprio quando sarebbe potuto essere un essenziale motore per rilanciare una crescita di qualità oltre che di quantità. L’unica politica economica europea diventa quella delle svalutazioni interne da adottare simultaneamente in tutti i paesi, per indurre una crescita trainata dalle esportazioni. La domanda che continuiamo a fare è sempre la stessa: chi importa se tutti esportano in un mercato interno che si restringe a causa delle stesse politiche economiche e che purtuttavia spiega la quota preponderante dei flussi commerciali?
La Grecia è stata e rimane terra di esperimenti, ove testare l’(in)efficacia delle ricette di austerità espansiva, quindi vittima della politica europea non tanto e non solo per gli obiettivi di saldo primario che si vogliono imporre, ma per l’uso strumentale che i tecnocrati europei hanno fatto della crisi che la attraversa da oltre 7 anni. Sebbene la Grecia sia la dimostrazione più eclatante della fallacia di queste politiche, la miopia di politici e taluni economisti persiste, e continua a fare danni. Alla fine la Grecia paga non solo tutti gli errori dei tecnocrati, europei e non, ma soprattutto l’assenza di una Europa degli Stati degna di questo nome. Paga anche gli errori pure riconosciuti delle istituzioni internazionali, FMI e BCE anzitutto, e quelli degli economisti liberisti che persistono nel proporre malefici sperimenti basati sui modelli DSGE, un po’ come accadeva in America Latina negli anni ’80 ad opera dei monetaristi. Ricordate i Chicago Boys alla corte del dittatore Pinochet in Cile? Mentre Krugman riporta alla mente lo spettro di un nuovo 1914 europeo, da questo punto di vista, all’opposto la resistenza della Grecia assomiglia molto al sogno dei padri fondatori dell’Europa.
Ma se il passato è pessimo, il futuro dell’Europa si annuncia come un incubo. Abbiamo oggi il progetto di riforma dell’UE Completing Europe’s Economic and Monetary Union dei “Magnifici 5”: Juncker, Tusk, Dijsselbloem, Draghi, Schulz. Se fissiamo i punti essenziali di questo progetto di riforma, al netto delle solite e note litanie su prosperità, sviluppo economico e piena occupazione, la finalità è quella di migliorare l’attuale governance europea, mentre i singoli paesi devono gettare le basi di un sostenibile ed efficiente bilancio pubblico. Un passaggio del report sottolinea che le politiche fiscali nazionali sono vitali per stabilizzare gli shock economici e per reagire velocemente alle crisi. In altri termini, la UE determina vincoli e limiti, gli stati devono rispondere alla crisi. Con quali strumenti? Non certo quelli di governo attivo della moneta, ovvio, ma neppure quelli di bilancio. Nella visione dei “cinque”, mai una parola su fisco e bilancio europeo federale. Rimangono solo le politiche di offerta strutturali di svalutazione del lavoro. La futura politica economica europea immaginata dai “Malefici 5” è, per assurdo, persino peggio di quella che stiamo sperimentando oggi. Il coordinamento delle politiche fiscali è finalizzato ad impedire ogni margine di flessibilità nelle politiche di bilancio nazionali, indispensabili per contrastare shock asimmetrici, ed al contempo si chiude ogni prospettiva per un bilancio europeo che rappresenti il 5% del Pil dell’intera Unione Europea. Non sorprende, allora, l’atteggiamento della Troika nel caso greco: il suo ruolo è quello di dettare le modalità del rispetto delle regole del “rigore”, non certo di realizzare una politica economica per una uscita dalla crisi.
Alla fine vogliamo che la Grecia possa sostenere il proprio debito o desideriamo riavere indietro i soldi del debito pregresso? L’una e l’altra soluzione rispondono a politiche economiche profondamente diverse. Perseverando nell’austerità gli stati europei non possono rispondere alla crisi, ma produrranno effetti di impoverimento progressivo e, inevitabilmente, sono causa del fallimento del progetto europeo. Qualcuno gioca con il fuoco, per obiettivi che si svelano politici. Osserva Stiglitz: “La vera natura della attuale disputa … riguarda il potere e la democrazia, molto più che la moneta e l’economia”.