Un recente studio del Fmi afferma che in diversi casi si dimostra più sensato convivere con un alto livello di debito piuttosto che impegnarsi nel ripagarlo
Il 2 giugno scorso, il Fondo monetario internazionale ha pubblicato una ricerca dal titolo: “Quando deve essere ridotto il debito pubblico?”. La notizia può apparire di poco conto, ma in un mondo in cui è dato per scontato che il debito sia un freno alla crescita, arrivando a teorizzare l’austerità espansiva, il dubbio posto rappresenta una novità non propriamente trascurabile. Lo studio, che porta la firma di Jonathan D. Ostry, vice direttore del centro studi dell’FMI, si inserisce nel nuovo filone di analisi intrapreso dall’ex responsabile del centro, l’economista Olivier Blanchard, oltrepassando il recinto della discussione tecnica per assumere i connotati di monito nei confronti del mondo politico.
Le implicazioni politiche non sono passate inosservate al Wall Street Journal, che non ha esitato a titolare “Gli economisti dell’FMI: stop all’ossessione del debito”, sferzando in questo modo i sostenitori dell’austerità ed enfatizzando il senso profondo dello studio.
La ricerca afferma che in diversi casi si dimostra più sensato convivere con un alto livello di debito piuttosto che impegnarsi nel ripagarlo (“it is better to live with high debt than to pay it down”). Gli autori sostengono, inoltre, che la riduzione del rapporto debito/PIL debba avvenire fisiologicamente tramite la crescita economica (“allowing debt ratios to decline organically through output growth”) e, di conseguenza, non mediante tagli ai deficit. Non sfugge che l’avverbio utilizzato sia “organically”, che palesa come lo strumento ritenuto fisiologico con il quale ridurre il rapporto debito/PIL sia la crescita e come, diversamente, le forme di riduzione del debito effettuate tramite strette fiscali rappresentano piuttosto situazioni patologiche.
Questo nuovo studio non è solo un ulteriore colpo capace di scalfire le colonne dell’ormai vetusto tempio dell’economia ortodossa, ma incrina le fondamenta teoriche sulle quali si basa anche tanta parte delle regole fiscali dell’Unione europea. In diversi casi si è tentato di affermare che il debito non debba superare determinati limiti, ovvero che questo conduca, con ogni probabilità, al rallentamento della crescita. Il caso più noto è il celebre parametro del 60% previsto dal Trattato di Maastricht, sebbene il più eclatante sia lo studio condotto da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff dell’università di Harvard (spesso citati come R-R), nel quale si dimostra che i paesi con un rapporto debito/PIL maggiore del 90% conoscono tassi di crescita del PIL inferiori a quelli dei paesi con un rapporto più favorevole. Usando un eufemismo si può dire che entrambi gli esempi non hanno avuto grande fortuna. Il parametro citato è stato più volte oggetto di indagini e critiche, tanto che ad oggi, tra gli economisti, è opinione comune che sia privo di fondatezza economica. Lo studio di R-R è stato legittimamente umiliato da un dottorando di ricerca che ha dimostrato come esso fosse stato condotto, semplicemente, con dati errati, senza certezza di una evidente correlazione tra livello del debito e crescita di lungo periodo.
La morale della vicenda è che le certezze propinate da un certo ambiente politico-accademico stanno mostrando tutte le crepe presenti nel tempio e per anni volutamente coperte. Se prima la critica alle politiche di austerità appariva baluardo esclusivo dei keynesiani e più in generale degli economisti “eterodossi”, oggi i dubbi vengono proprio dal Fondo monetario internazionale, vale a dire da chi, per decenni, ha rappresentato nientedimeno che il tempio dell’ortodossia.
Articolo tratto da eunews.it