Il rapporto Svimez 2025 fotografa per il Sud, e la Calabria in particolare, un quadro di spopolamento ed emigrazione, con conseguenze profonde su economia, lavoro e comunità locali. L’accoglienza delle persone migranti può essere una leva di rigenerazione territoriale. Come dimostra il caso di Riace.
L’emigrazione in Calabria
Il recentissimo rapporto Svimez per il 2025 – dal titolo “Freedom to move, right to stay” – evidenzia un quadro demografico critico per il nostro Paese e, in particolare, per il Sud e la Calabria. Il calo della popolazione dipende dal saldo negativo tra nascite e decessi, non compensato dai flussi migratori esteri. Nel 2024, oltre 116mila residenti al Sud hanno trasferito la propria residenza in una regione del Centro-Nord. Tra i tassi di emigrazione più elevati, si registra appunto quello calabrese (4,6%).
In questo contesto, le prospettive sono drammatiche. Svimez conferma il progressivo spopolamento della regione, con una previsione che la vede, nel 2050, con 356mila abitanti in meno rispetto ai dati attuali. L’emigrazione costituisce un elemento centrale nella storia della Calabria. Le cause principali di questa mobilità forzata sono storicamente legate alla povertà rurale, alla scarsità di opportunità lavorative stabili, alla crisi dell’agricoltura tradizionale e a un sistema di potere locale spesso bloccato da logiche clientelari.
A livello nazionale, l’attuale dinamica del fenomeno migratorio che emerge nel report Svimez è caratterizzata da flussi che differiscono da quelli manifestatisi nei decenni passati: si è consolidata soprattutto la tendenza del fenomeno tra le giovani generazioni. Infatti, la quota dei laureati, nella fascia di età 25-34 anni, è del 50% per gli uomini e raggiunge il 70% per la componente femminile. I trasferimenti annuali dei laureati meridionali raggiungono stabilmente le 40mila unità. Inoltre, tra i due trienni 2017-2019 e 2022-2024 il numero di giovani 25-34enni che hanno lasciato il Paese è aumentato di oltre il 10%, passando da circa 121mila a circa 135mila unità.
In particolare per il Sud, nel 2022-2024, la crescita delle migrazioni giovanili interne ed estere è stata di 175mila giovani meridionali che hanno lasciato l’area di residenza con destinazione il Centro-Nord o l’estero, 7mila in più rispetto al 2017-2019. Anche l’emigrazione qualificata determina una perdita secca cumulata per il Mezzogiorno, che viene calcolata in termini di costo di formazione dei laureati che hanno maturato il proprio capitale umano nel Sud e poi si sono trasferiti altrove.
Dal rapporto Svimez, il costo stimato tra il 2020 e il 2024 di tale perdita è di circa 6,7 miliardi di euro l’anno per coloro che si trasferiscono al Centro-Nord, cui si aggiungono ulteriori 1,2 miliardi di euro per gli “expat”. Se, poi, all’emigrazione giovanile si associa la progressiva tendenza legata alla denatalità, ecco che il tratto saliente che caratterizza il territorio calabrese è lo spopolamento, soprattutto per quanto riguarda le zone interne e montane. L’effetto immediato è il progressivo invecchiamento della popolazione calabrese, con un indice di vecchiaia pari a 189,4 anziani ogni 100 giovani.
Ma una conseguenza altrettanto grave dello spopolamento calabrese è la perdita di attività economiche e la soppressione di servizi pubblici e privati (come asili, scuole, uffici postali, sportelli bancari) per mancanza di utenti e per ragioni di convenienza economica. Tutto ciò impatta direttamente sul piano occupazionale e sui tassi di povertà che, aumentando, vanno a costituire un terreno di coltura privilegiato per gli interessi clientelari di certa politica collusa con il malaffare.
A questo fenomeno, rilevante tanto per le dimensioni quanto per le ricadute negative per la regione – lo svuotamento di interi centri abitati, lo sperpero di risorse umane ed economiche, la perdita di patrimonio culturale e ambientale – è stata data poca importanza fino ad oggi. In ogni caso, è mancato un disegno integrato per contrastarlo.
Dalla partenza all’accoglienza
Il problema dell’inverno demografico che investe il Mezzogiorno – e la Calabria in particolare – può essere affrontato anche cogliendo l’opportunità rappresentata dai flussi migratori in entrata che interessano il territorio meridionale. Tali flussi sono legati, da un lato, alla presenza diffusa di abitazioni disabitate e di spazi inutilizzati e, dall’altro, al fatto che alcuni amministratori locali abbiano intravisto nell’accoglienza la possibilità di contrastare lo spopolamento e la desertificazione sociale delle proprie comunità.
In altri termini, l’accoglienza dei migranti in Calabria diventa anche preziosa occasione di rigenerazione per economie territoriali in declino. È in questo contesto che si colloca come si vedrà l’esperienza di Riace, divenuta simbolo di un possibile modello di rinascita territoriale attraverso l’accoglienza e la solidarietà. I migranti accolti in Calabria fuggono da guerre, persecuzioni, fame, disastri ambientali o dall’espropriazione delle loro terre: le loro condizioni di vita si legano ai principi della libertà di movimento sancita dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 (art. 13.1).
La Calabria si contraddistingue per una prevalenza di immigrazione spontanea, scarsamente inserita nei circuiti industriali e amministrativi, ma spesso integrata nei settori produttivi tradizionali, come l’agricoltura, l’edilizia e l’assistenza domiciliare. Questi comparti, fondamentali per l’economia regionale, sopravvivono in larga parte grazie al contributo dei lavoratori di origine straniera, che svolgono un ruolo complementare e talvolta sostitutivo nella tenuta del sistema produttivo.
Il grado di “integrazione”, tuttavia, varia in base ai territori e dipende tanto dall’accettazione da parte degli immigrati del contesto locale, quanto – soprattutto – dalla capacità delle comunità locali di accoglierli. Dove il dialogo interculturale si sviluppa, si costruiscono forme di convivenza autentica. Dove invece prevale la chiusura, si riproducono modelli di “multiculturalismo” statico, fondati sulla semplice coesistenza, pacifica o non, di gruppi distinti. Occorre dunque interrogarsi su come valorizzare tale diversità, evitando che essa diventi fonte di divisione e disuguaglianza: prima di tutti gli aspetti, viene quello culturale.
Il punto di partenza deve essere il disfacimento dei pregiudizi nei confronti della persona migrante, a partire dal riconoscimento del suo statuto di persona titolare di diritti inviolabili e di doveri inderogabili, così come stabilito negli articoli 2 e 3 della Costituzione italiana. In questa prospettiva, la Repubblica ha il compito di garantire la tutela dei diritti fondamentali del migrante, di rimuovere gli ostacoli che ne impediscono la piena partecipazione alla vita sociale e di promuoverne la partecipazione attiva, affinché ciascuno possa contribuire al progresso materiale e spirituale della società (articolo 4 della Costituzione).
Il migrante, riconosciuto quindi come soggetto titolare di diritti, diventa al contempo protagonista della vita comunitaria e parte integrante del tessuto sociale. Solo in questo modo l’accoglienza si trasforma da gesto umanitario in un vero e proprio progetto politico di coesione, capace di contrastare lo spopolamento, rivitalizzare economicamente e socialmente i territori e costruire una società più equa e plurale.
L’esperienza di Riace
Per la Calabria, e più in generale per il dibattito sulle migrazioni in Italia, Riace rappresenta un caso esemplare in cui pratiche concrete di accoglienza sono state pensate e attuate come strumento di rigenerazione territoriale. Laddove i flussi migratori sembrano ingestibili – o meglio vengono rappresentati come tali –, questo borgo in provincia di Reggio Calabria è divenuto simbolo di dignità e di sviluppo sostenibile. Il cosiddetto “modello Riace” ha offerto in particolare una risposta positiva e concreta al profondo declino demografico del territorio, sulla base del dispiegamento di un paradigma alternativo di sviluppo sociale fondato sui cardini della solidarietà e della convivenza.
L’accoglienza lì praticata è stata infatti concepita come un processo attraverso cui raggiungere la stabilità economica e la parità di trattamento sul lavoro, a partire da un’equa retribuzione della manodopera. Elementi chiave sono stati inoltre l’apertura di microimprese, la promozione di laboratori artigianali e la nascita di una fattoria didattica per la produzione agro-solidale. Ciò ha consentito di dar vita a economie locali solidali all’interno di una comunità che vede vecchi e nuovi residenti prendere parte insieme alla vita economica e sociale del paese, determinandone la traiettoria di rigenerazione.
Per consolidare questo modello, accanto alle iniziative relative alla dimensione economica, si sono peraltro sommati un lavoro culturale e formativo che ha coinvolto la scuola e un intervento urbano articolato su più fronti. Il recupero delle case abbandonate del centro storico e la ristrutturazione di oltre trenta abitazioni hanno permesso l’adozione di una politica di accoglienza diffusa. Altrettanto importante è stata anche l’assicurazione di servizi essenziali gratuiti o a basso costo nel paese, quali l’ambulatorio pediatrico e ginecologico, lo scuolabus e gli asili nido.
L’insieme di queste azioni ha prodotto non solo una ripopolazione fisica del borgo storico, ma anche un rafforzamento del suo tessuto e della sua trama sociale, con un coinvolgimento attivo delle persone migranti e un loro ruolo cruciale per il benessere sociale collettivo. Da un lato, al paese occorrevano nuove presenze per essere ripopolato e per poter sopravvivere a un inesorabile declino; dall’altro lato, i migranti avevano bisogno di un luogo dove poter ricostruire la propria vita. L’accoglienza non è stata un atto di carità, ma uno snodo fondamentale per la vita del borgo e una leva di rigenerazione territoriale. In tal senso, il modello sperimentato a Riace costituisce una lente con cui leggere il rapporto tra centro e periferia, politica e umanità, resilienza e fragilità.
In un territorio segnato dalla ‘ndrangheta e dalla precarietà economica, l’accoglienza così concepita e attuata rappresenta un gesto politico e culturale, un modo per riaffermare la dignità di tutte/i e di ciascuna/o. Dalla Calabria arriva quindi un caso esemplare che incarna l’idea di un “risorgimento solidale” fondato sulla collaborazione e sul rifiuto della mercificazione dei rapporti umani. In tempi di crisi come quelli odierni, è essenziale riscoprire i principi di solidarietà e responsabilità come condizioni abilitanti di una militanza solidale collettiva, orientata al progresso morale e materiale della società.




