Continente Grecia/Solo l’11 per cento degli aiuti è finito allo Stato ellenico, che ha dovuto tagliare spesa pubblica e welfare. Mentre il debito pubblico è esploso Ecco perché è falsa l’idea che l’Europa abbia salvato il Paese
Le imminenti elezioni greche, e la prospettiva di una possibile vittoria di Syriza, hanno rimesso la questione del debito greco al centro del dibattito europeo. Alexis Tsipras ha infatti annunciato che in caso di vittoria elettorale chiederà “la cancellazione della maggior parte del valore nominale del debito pubblico” e un “periodo significativo di moratoria” sul rimborso della parte restante del debito. Prevedibilmente, la notizia ha mandato in tilt le cancellerie di mezza Europa. Ed è facile capire perché. Solo il 15% del debito greco, che ammonta a 317 miliardi di euro (il 177% del Pil), è in mano al settore privato (il che spiega la relativa calma dei mercati). Il grosso del debito – il 65% del totale, per la precisione – è detenuto dagli altri governi dell’eurozona. Il resto è in mano al Fondo monetario internazionale e alla Bce. Considerando che l’Fmi non permette agli stati di ristrutturare i debiti nei suoi confronti; che la Bce, per bocca del francese Benoît Cœuré, ha dichiarato senza mezzi termini che un’eventuale ristrutturazione del debito in mano alla Bce sarebbe illegale; e che Tsipras ha affermato di non voler colpire i creditori privati, risulta evidente che saranno i governi europei a pagare per intero il prezzo di un’eventuale ristrutturazione del debito greco.
La Germania ha già fatto sapere che è disposta a prendere in considerazione una revisione delle condizioni di rimborso (rinegoziando le scadenze e/o i tassi di interesse, per esempio), ma ha categoricamente escluso l’ipotesi di un taglio del valore nominale del debito. A prima vista la posizione tedesca sembra ragionevole: “Ma come? Nel momento del bisogno vi abbiamo prestato i soldi, e ora ci pugnalate alle spalle?”. È opinione comune, non solo in Germania, che il “salvataggio” – o bailout – della Grecia da parte della troika, prima nel 2010 e poi nuovamente nel 2012, per un totale di 226 miliardi di euro, avrebbe avuto principalmente lo scopo di tenere a galla lo stato greco, permettendogli di far fronte alle spese correnti (gli stipendi di medici, insegnanti, poliziotti e così via). Secondo questa lettura, la Germania potrebbe essere paragonata a una sorella maggiore severa, forse un po’ ottusa, ma comunque disposta ad aiutare i propri fratelli nel momento del bisogno. Ma è veramente così?
Da un recente studio condotto dall’economista greco Yiannis Mouzakis sulla base di documenti della Commissione europea, dell’Fmi e del governo greco emerge che solo circa 27 miliardi di euro di prestiti della troika – l’11% del totale – sono andati a coprire i costi dello stato. Anche perché dal 2013, in virtù della stretta brutale causata dalle politiche di austerità, lo stato greco registra un avanzo primario (in altre parole i ricavi superano le spese).
E allora dove sono finiti tutti i soldi? Il grosso è stato utilizzato per ricapitalizzare le banche greche e per onorare gli impegni con i creditori dello stato e dei privati greci, in gran parte banche tedesche e francesi: in totale, più dell’80% degli “aiuti” della troika sono andati a beneficio diretto o indiretto del settore finanziario (nazionale ed estero).
Questi dati mostrano quanto sia fallace l’idea secondo cui “i soldi dei contribuenti europei”, come amano chiamarli, siano serviti a salvare la Grecia e gli altri paesi della periferia; la verità è che, con la scusa di salvare le cicale greche, i soldi dei contribuenti europei – di tutti noi – sono stati utilizzati per salvare ancora una volta le grandi banche del continente. Molte delle quali tedesche. È la stessa conclusione raggiunta anche da nientedimeno che Peter Böfinger, consigliere economico del governo tedesco, che nel 2011 ha dichiarato che il bailout della Grecia “non riguarda tanto i problemi della Grecia quanto quelli delle nostre banche, che possiedono molti crediti nei confronti del paese”. Nel frattempo il debito della Grecia è esploso, passando dal 130% del 2010 al 177% di oggi. Per aggiungere la beffa al danno, poi, “l’aiuto” della troika è stato utilizzato come giustificazione per imporre alla Grecia un brutale programma di austerità fiscale e salariale che ha bruciato un quarto del reddito nazionale e ridotto in povertà milioni di persone.
Incredibilmente, il dubbio che il bailout così come concepito dalla Commissione europea e dalla Bce avesse lo scopo di salvare le banche e non la Grecia fu sollevato a suo tempo persino dal terzo membro della troika, il Fondo monetario internazionale. È riportato nero su bianco nei verbali della drammatica riunione del 9 maggio 2010 in cui l’Fmi ha dato il via libera al primo piano di aiuti per il paese. I documenti parlano chiaro: più di quaranta paesi, tutti non europei e pari al 40% del board, erano contrari al progetto messo sul tavolo dai vertici Fmi. Il motivo? Era “ad altissimo rischio”, come ha messo a verbale il rappresentante brasiliano, perché “concepito solo per salvare i creditori, nella gran parte banche del vecchio continente e non la Grecia”. L’Fmi era propenso a imporre subito un taglio al debito greco, per mezzo di un “haircut” (come poi è stato fatto nel 2012), ma la Commissione europea e la Bce erano fermamente opposte a imporre qualunque perdita ai creditori. È interessante notare che l’opposizione dell’Fmi al piano si basava sull’argomentazione secondo cui un prestito così ingente in relazione al Pil del paese (in pochi anni la Grecia ha preso in prestito dalla troika fondi equivalenti al 125% dell’attività economica del paese nel 2014) avrebbe reso il debito greco – al tempo ancora sostenibile, secondo l’organizzazione – definitivamente insostenibile. Una previsione che oggi, secondo praticamente tutti gli analisti, è diventata realtà. E che rende la ristrutturazione annunciata da Tsipras una condizione essenziale per permettere al paese di ricominciare a crescere (soprattutto alla luce degli attuali vincoli di bilancio europei, che Syriza ha annunciato di voler rispettare).