Fine semestre/ L’unica soluzione sarebbe un piano di investimenti vero. Ma i soldi di Juncker sono una finta: disponibili solo pochi miliardi. Così l’Ue rischia di disgregarsi, non rimpianta da nessuno
L’euro ha sofferto degli errori dei vari governi, ma soprattutto di due malattie congenite iniziali e di una successiva malattia degenerativa. Primo, la nascita prematura dell’euro, prima dell’integrazione politica e fiscale: l’euro avrebbe dovuto essere lo stadio finale dell’integrazione europea, il suo coronamento, e invece è stato impiegato per accelerare i processi di integrazione, spingendo la finalité politique mediante le tensioni generate dalla disfunzione monetaria. Secondo, la BCE è nata incompleta, per non dire mutilata, non tanto per la sua indipendenza – che è comune alle maggiori banche centrali del mondo – ma perché, modellata sulla Bundesbank, era ancor più di quest’ultima del tutto separata dalla politica fiscale, priva del potere illimitato di acquistare titoli di stato come invece fanno altre banche centrali pure indipendenti. Per di più la BCE è nata priva dei poteri consueti di supervisione e consolidamento delle altre banche e priva della rete protettiva di una assicurazione dei depositi.
La malattia degenerativa dell’Unione monetaria europea è stata la progressiva divergenza economica dei paesi membri, non solo in termini dei parametri monetari e fiscali di cui era prevista la convergenza statutaria attraverso regole poi disattese, ma anche dei parametri reali e finanziari, quali il tasso di disoccupazione, la quota dei crediti bancari in sofferenza, la competitività internazionale. La progressiva divergenza, ha creato forti spinte centrifughe.
La sola politica monetaria non è sufficiente a rilanciare l’economia europea – lo dimostra anche il fallimento dell’Abenomics in Giappone – nonostante le iniziative originali e coraggiose di Mario Draghi (LTROs, OMTs e altre azioni non convenzionali) anche per i vincoli previsti dai Trattati e imposti soprattutto per le pressioni dei paesi nordici. Non funziona nemmeno affidarsi al commercio internazionale, che dagli anni ’70 è stato un fattore dominante di crescita: di recente è rallentato ancor più del Pil globale.
Da molte parti si invocano “riforme strutturali”, come il Jobs Act appena introdotto Italia. Ma tali riforme sollevano tre seri problemi. Non c’è accordo sulla desiderabilità di questa o quella riforma, visti i loro effetti redistributivi; eventuali effetti positivi possono manifestarsi solo nel lungo periodo; ci sono riforme strutturali che, seppure efficaci nel lungo periodo, nel breve periodo possono avere effetti negativi.
Si chiede poi la riduzione della spesa pubblica allo scopo di ridurre le imposte (come ipotizzato ma non ancora realizzato nella nostra spending review). È desiderabile che si riducano gli sprechi, ma una riduzione bilanciata di spese e di imposte può solo avere un effetto recessivo sul livello di reddito e dell’occupazione, come dimostrato dalla teoria economica. Semmai sarebbe desiderabile un potenziamento degli investimenti pubblici finanziato con la riduzione di spese pubbliche correnti.
Una soluzione superiore sarebbe un investimento pubblico intrapreso a livello europeo. Ma i paesi europei cosiddetti virtuosi, che sarebbero nella migliore posizione per accollarsi un ruolo propulsivo sono irragionevolmente riluttanti a farlo. E il bilancio dell’Unione, pari a un misero 1% del Pil europeo (è il 20% negli Usa), non consente grandi iniziative europee.
Potrebbe sembrare che il recente Piano Juncker, con investimenti dell’ordine di €315 miliardi in tre anni a partire dall’autunno 2015, rappresenti un passo in questa direzione. In realtà questo progetto prevede un presunto e irrealistico effetto moltiplicativo sugli investimenti privati, dell’ordine di quasi 15 volte. I fondi europei sarebbero solo 21 miliardi, di cui 8 già stanziati per altri scopi, 8 in garanzie, e 5 miliardi stanziati dalla BEI, di cui tuttavia non è prevista la ricapitalizzazione. Attualmente il denaro fresco effettivamente disponibile sarebbe di soli 2 miliardi. Una presa in giro.
Altre proposte interessanti sono emerse di recente. Jacques Drèze e Alain Durré hanno proposto l’emissione di obbligazioni indicizzate al tasso di sviluppo medio dell’eurozona da parte della BCE o altra agenzia Ue, che poi le scambierebbe con obbligazioni dei paesi membri indicizzate al tasso di sviluppo dei singoli paesi, in proporzione al loro Pil in modo da poter pagare un sussidio ai paesi che crescono meno della media con il rendimento ottenuto dalle obbligazioni dei paesi che crescono più della media, senza alcun costo. Uno schema brillante, che però in caso di default infliggerebbe forti perdite in conto capitale all’agenzia emittente. Pierre Pâris e Charles Wyplosz hanno proposto lo schema Padre (Politically Acceptable Debt Reduction in the Eurozone) – analogo a una mia proposta del 2013 – consistente nella mobilitazione del signoraggio della BCE, per l’acquisto e il ritiro di titoli del debito pubblico di tutti i paesi azionisti della BCE (inclusi 10 paesi membri della Ue ma non dell’EMU), nelle proporzioni delle loro azioni. Quindi anche un eventuale default non comporterebbe una Transfer Union. Willem Buiter stima il valore del signoraggio della BCE a circa €3300 miliardi.
Negli ultimi anni si è parlato insistentemente di una possibile disintegrazione dell’eurozona, con il ritorno dei paesi più deboli a una moneta nazionale. Il recupero della sovranità monetaria consentirebbe l’impiego di tutti gli strumenti della politica monetaria, e di riacquistare competitività attraverso la manovra del tasso di cambio. Tuttavia la disciplina fiscale continuerebbe ad applicarsi a tutti i membri della Ue, anche se non più membri dell’Unione monetaria. Il tasso di cambio fra euro e la nuova valuta sarebbe irrilevante, perché si applicherebbe anche ai prezzi. Ma il suo uso come strumento di politica economica nazionale avrebbe il costo di successive svalutazioni, maggiore inflazione, maggiori tassi di interesse e rivalutazione del debito. C’è poi la prospettiva di una vera e propria uscita dall’Unione Europea perché gli accordi dell’Unione – ad eccezione di Danimarca e Regno Unito che a suo tempo negoziarono una deroga – esigono l’adesione alla moneta unica come parte dell’acquis communautaire. L’uscita dall’euro non eviterebbe il default ma sarebbe la forma che tale default prenderebbe, con il costo di un minore accesso ai mercati finanziari.
Seguendo le politiche correnti, prima o poi la crisi economica potrà terminare e dar luogo a una ripresa, per i meccanismi automatici che operano sempre nel corso di ogni ciclo economico, ma ciò potrebbe avere luogo troppo tardi per evitare la disintegrazione dell’area dell’euro (come avvenne con la disintegrazione dell’Unione sovietica). Se non cambierà strada, questa nostra Europa avrà tradito gli intenti dei suoi Padri fondatori. E non potremo nemmeno piangere l’eventuale fine ingloriosa del progetto europeo, perché l’Europa che abbiamo oggi non ci serve, e non merita certo le nostre lacrime.