Per gentile concessione dell’editore Laterza e dell’autore pubblichiamo una parte dell’Introduzione del libro di Fabrizio Tonello L’America in 18 quadri. Dalle piantagioni a Silicon Valley (Laterza, 2025, €20).
Questo non è un libro di storia dell’arte, è un libro di storia del conflitto sociale negli Stati Uniti: dalle idee di uguaglianza e libertà scolpite nella Dichiarazione di Indipendenza del 1776 fino al governo dei miliardari dell’amministrazione Trump nel 2025. Un conflitto tra gli oligarchi e il popolo, tra bianchi e nativi americani, tra bianchi e afroamericani. Ma anche un conflitto con la natura, come le storie di trivellazione del petrolio e di sfruttamento dissennato del suolo delle Grandi praterie ci dicono.
Questo è un libro di storia degli Stati Uniti, ammesso che sia possibile tenere insieme – e dare un senso – a due secoli e mezzo di avvenimenti in un territorio che, nel 1776, era costituito da una stretta striscia costiera lungo l’Atlantico, mentre oggi sfiora i 10 milioni di chilometri quadrati. Un paese che alla data dell’indipendenza aveva circa 3 milioni di abitanti, fra cui 500.000 schiavi, e oggi ne ha 334 milioni, centodieci volte di più. Una nazione che da una parte era abitata solo poco più a Nord di Boston e, dall’altra, finiva nelle piantagioni di cotone presso Savannah, in Georgia. Oggi gli Stati Uniti toccano il Circolo polare artico con l’Alaska e finiscono nel Golfo del Messico, mentre la loro isola di Guam, nel Pacifico, è assai più vicina al Giappone che alla California. Ciò nonostante, alcune costanti, alcuni fili interpretativi si possono trovare. Una narrazione non convenzionale è possibile. (…)
La nostra memoria di ciò che è avvenuto negli Stati Uniti si nutre sostanzialmente di ciò che gli sceneggiatori di Hollywood hanno prodotto fra il 1920 e oggi: grossolane falsificazioni. Per ricordare, l’immagine è sempre più potente della parola, anche perché si sottrae agli strumenti disciplinari ristretti della sociologia, della storia politica, della storia dell’ambiente.
Grazie al Whitney Museum è stato possibile trovare un archivio storico che non dicesse il suo nome, un luogo dove ci fossero tutti gli stimoli necessari ma non la cacofonia in cui siamo immersi. Un museo che, grazie ai suoi oltre 26.000 pezzi di arte americana, è adatto a cercare il filo rosso di una storia alternativa degli Stati Uniti. La vera immagine del passato ci appare sempre di sfuggita, occorre coglierla in un istante: “In ogni ambito dell’arte [è] compito degli artisti separare ciò che è essenziale e permanente da ciò che è accidentale e fugace e, di conseguenza, eliminare dalle loro composizioni le superficialità e le banalità a beneficio dei tratti essenziali” (…)
Per esempio, un giovane artista afroamericano, Cameron Rowland, ha trasformato una bilancia ottocentesca per pesare il cotone in objet d’art. Una stadèra d’epoca ribattezzata Price per pound, che nella solitudine delle sale del museo ci ricorda il prezzo di sangue pagato dagli schiavi per ogni libbra di cotone raccolto nelle piantagioni del Sud. Ci ricorda il razzismo sistemico che ancora ferisce la società americana. Un razzismo di cui possiamo tracciare la mappa guardando alle località dove fu proiettato, cento anni fa, Birth of A Nation, il film di David W. Griffith considerato un capolavoro della storia del cinema e nello stesso tempo responsabile di violenze contro le minoranze etniche ancora oggi.
Nelle collezioni del Whitney troviamo un piccolo quadro del 1934 di William Palmer, un artista poco conosciuto: Dust,Drought and Destruction (Polvere, siccità e distruzione). Un’immagine che ci trasmette la violenza dei tornado che devastarono le grandi praterie all’epoca: vediamo alberi abbattuti, una casa distrutta, un mulino divelto. Se cerchiamo altre fonti sugli anni Trenta del Novecento troviamo le foto di Arthur Rothstein, uno dei primi fotogiornalisti americani, che ha prodotto centinaia di scatti su quel periodo, tra cui Dust Bowl Cimarron County, Oklahoma, anch’esso presente nelle collezioni del Whitney.
Perché Dust Bowl, che letteralmente vuol dire “scodella di polvere”? È la storia di un’area inadatta all’agricoltura che nei periodi di siccità perde il suo suolo superficiale e crea immense nuvole di polvere che viaggiano per migliaia di chilometri, come appunto accadde novant’anni fa. Gli insediamenti in un clima che a ovest del 100° meridiano è semidesertico trasformarono la siccità degli anni Trenta in una catastrofe sociale: furono milioni i contadini costretti ad abbandonare le loro case in rovina e i loro campi inariditi. Furono loro, gli abitanti dell’Oklahoma, del Texas, del Kansas e del Nebraska i primi profughi climatici dell’era moderna, le prime vittime dell’ignoranza e della malafede nel nostro rapporto con il clima. Sta a noi ascoltare attentamente quello che gli artisti ci dicono e usare la storia per capire il presente.
I 18 capitoli che seguono sono collocati in ordine cronologico ma, nello stesso tempo, si estendono alle conseguenze odierne di molti processi di lunga durata. Un altro quadro su cui riflettereè Conference at Night, un’opera di Edward Hopper del 1949, che ci mostra tre persone in un interno spoglio: una donna e un uomo in piedi, un uomo seduto che sta parlando e gesticolando come se stesse dando istruzioni agli altri due. L’opera, come moltissimi dei lavori di Hopper, è enigmatica, si presta a molteplici interpretazioni. Nella paranoia della Guerra fredda, però, un abituale cliente del pittore, Stephen Clark, restituì il quadro alla galleria perché secondo la moglie il quadro “sembrava un po’ troppo una riunione comunista”. L’episodio ci dice molto sulla paranoia per le attività delle spie russe, e più in generale dei “sovversivi” negli Stati Uniti. Un panico che sarebbe diventato isteria collettiva negli anni Cinquanta, in particolare dopo l’esplosione della prima testata nucleare in Russia, il 29 agosto 1949, e la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese il 1° ottobre 1949. Un’isteria collettiva che è quella oggi attizzata dall’amministrazione Trump sul tema della presunta invasione di “milioni” di immigrati latinoamericani provenienti dal Messico.
