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Salari, inflazione e il triangolo smarrito

L’Italia – in particolare nel settore manifatturiero a medio-bassa tecnologia e nella filiera dell’energia importata – dovrà convivere con un’inflazione alla produzione più alta della media europea per anni. Serve una norma che colleghi i salari all’inflazione alla produzione, e non a quella importata.

Negli ultimi trent’anni il dibattito economico italiano ha subito una profonda trasformazione, e con esso anche il ruolo dei salari e il loro legame con l’inflazione. A partire dal 1992, anno cruciale per la contrattazione collettiva in Italia con l’accordo tra governo, sindacati e Confindustria (Protocollo del luglio 1993), si è assistito a un progressivo cambiamento nei rapporti tra capitale, Stato e lavoro¹. L’idea di agganciare i salari all’inflazione – una proposta che un tempo suscitava consenso trasversale – è progressivamente tramontata, sostituita dalla logica della produttività come unico metro di giudizio per l’equità salariale.

In nome della competitività e della lotta all’inflazione, molti governi hanno giustificato riforme e sacrifici. Ma come ammoniva l’economista Augusto Graziani, “troppi hanno fatto i conti senza l’oste”: si è trascurato il fatto che il costo del lavoro in Italia non è affatto tra i più alti dell’OCSE². Secondo i dati OECD (2023), il costo medio orario del lavoro in Italia si aggira intorno ai 30 euro, contro i 38 euro della Germania e oltre 45 euro in Danimarca³. Eppure, l’Italia è percepita come meno competitiva (figura 1).

Figura 1

Il dibattito sul cuneo fiscale, spesso demonizzato, ignora un aspetto cruciale: lo Stato sociale italiano è universale e contributivo, finanziato da imposte e contributi. Difendere questo sistema ha avuto un prezzo alto sulla sostenibilità dei sistemi previdenziali. Inoltre, è giusto ricordare che questo sistema – in quanto presidio dei diritti sociali – appartiene a quella sfera dei diritti di seconda generazione che, secondo Norberto Bobbio, costituiscono la naturale evoluzione dei diritti civili e politici (prima generazione), e senza i quali l’uguaglianza resta puramente formale⁴. Il diritto all’istruzione, alla salute, alla previdenza non sono optional, ma condizioni materiali per l’esercizio della cittadinanza.

Va inoltre ricordato che l’inflazione non è solo un parametro tecnico: è un fenomeno sociale, con radici profonde nella struttura economica e nel costo delle materie prime. Le istituzioni europee avrebbero margini di manovra su quest’ultimo fronte, ma la crescita dei prezzi – soprattutto negli ultimi anni – è avvenuta in parallelo con l’aumento dei profitti. Secondo un report della BCE (2023), oltre il 40% dell’inflazione del 2022 è attribuibile all’aumento dei margini di profitto delle imprese⁵. In Italia, l’ISTAT segnala che l’indice dei prezzi alla produzione ha superato quello al consumo in molti settori, indicando una pressione strutturale più profonda (figura 2) ⁶.

Figura 2

L’Italia, per la sua specializzazione produttiva – in particolare nel settore manifatturiero a medio-bassa tecnologia e nella filiera dell’energia importata – dovrà convivere con un’inflazione alla produzione più alta della media europea per diversi anni. Secondo Eurostat, nel 2022 l’inflazione alla produzione industriale italiana ha toccato picchi del +30%, contro una media UE del 25%⁷.

Serve quindi una norma che colleghi i salari all’inflazione alla produzione, e non a quella importata, che andrebbe invece neutralizzata tramite misure pubbliche, possibilmente europee. Ma serve anche di più: servono beni pubblici “di merito” – sanità, istruzione, trasporti – che non possono essere lasciati al mercato. Come ricordava Paolo Sylos Labini, “il mercato è cieco rispetto all’equità” ⁸.

Un altro nodo da sciogliere è quello della frammentazione contrattuale. Come sottolineato da Rapiti, Romano e Venditti (2024), occorre ridurre il numero dei contratti collettivi – oggi oltre 1000, di cui solo circa 200 attivi secondo CNEL⁹ – selezionandoli in base al numero dei lavoratori coinvolti o al valore aggiunto che rappresentano. La semplificazione e razionalizzazione della contrattazione è essenziale per ridare forza al sindacato e al lavoro.

L’inflazione è tornata a far paura solo in tempi recenti, sull’onda lunga della pandemia, della guerra in Ucraina e delle tensioni commerciali globali. Eppure, per anni è stata considerata un “ferro vecchio”. Oggi più che mai, è necessario misurare l’inflazione in modo disaggregato, anche per fascia di reddito, come suggerito da Maranzano e Romano (2022): l’inflazione colpisce in modo diverso in base al reddito disponibile. Secondo un’analisi di Banca d’Italia (2023), le famiglie a basso reddito hanno sperimentato un’inflazione effettiva fino a 2 punti percentuali più alta rispetto a quelle ad alto reddito¹⁰.

È tempo di riscoprire un sano principio liberale: tutti uguali ai nastri di partenza. Ma come ricordava Bobbio, “l’eguaglianza giuridica non basta a rendere gli uomini realmente eguali” ⁴. Per questo, accanto ai diritti formali, servono politiche e norme che riconoscano e correggano le diseguaglianze sostanziali. Nel campo del lavoro, ciò significa introdurre un “diritto diseguale” – nel senso più alto del termine – che protegga il contraente debole e ristabilisca la parità di potere tra chi lavora e chi organizza il lavoro. Senza questo, il contratto di lavoro è solo un’apparente espressione di libertà.

Come ricordava Paolo Leon, servono politiche in grado di tenere insieme le tre facce del triangolo: capitale, Stato e lavoro. L’inflazione non va subita né imposta: va governata.

La questione salariale è oggi più urgente che mai, ma non basta aumentare i salari per rilanciare la domanda: bisogna interrogarsi sulla qualità della domanda stessa. Quando in Italia crescono i consumi, aumentano immediatamente anche le importazioni. Il rischio è di diventare il 51° Stato degli Stati Uniti come impostazione economica e commerciale. Il caso americano lo dimostra: nonostante forti stimoli alla domanda interna, l’offerta non si è adeguata. Forse, come suggeriva Michał Kalecki, è sulla natura della domanda e dell’offerta che dobbiamo riflettere, più che sul suo moltiplicatore¹¹.

Il potere d’acquisto dei salari non può essere trattato come variabile congiunturale. Serve un modello normativo che lo leghi strutturalmente al PIL, per garantire equità e coesione. Come ricorda l’ILO (2022), “la disconnessione tra produttività e salari è una delle principali fonti di disuguaglianza” ¹². E per correggere questa tendenza, bisogna affrontare con coraggio i “poteri ignoranti” (Leon P.) che oggi paralizzano il cambiamento.

  1. CNEL (1993), Protocollo d’intesa sulla politica dei redditi e l’occupazione, la contrattazione e le politiche del lavoro.
  2. Graziani, A. (2000), Lo sviluppo dell’economia italiana: dalla ricostruzione alla moneta europea.
  3. OECD (2023), Labour compensation per hour worked, https://stats.oecd.org.
  4. Bobbio, N. (1990), L’età dei diritti. Einaudi.
  5. BCE (2023), Corporate profits and inflation in the euro area, ECB Economic Bulletin.
  6. ISTAT (2023), Prezzi alla produzione dei prodotti industriali, https://www.istat.it.
  7. Eurostat (2023), Industrial producer price index, https://ec.europa.eu/eurostat.
  8. Sylos Labini, P. (2002), Per una nuova Italia. Mercato e classe dirigente.
  9. CNEL (2024), Archivio nazionale dei contratti collettivi di lavoro.
  10. Banca d’Italia (2023), Note sull’economia: disuguaglianza e inflazione effettiva.
  11. Kalecki, M. (1954), Theory of Economic Dynamics.
  12. ILO (2022), Global Wage Report 2022-2023: The impact of inflation and COVID-19 on wages.