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Anni 70: i protagonisti dimenticati

Non è accettabile che la stagione politica degli anni 70 venga ricordata sotto l’insegna “anni di piombo”, come fu per mettere in ombra il protagonismo operaio in funzione neoliberista sotto i governi di centro-sinistra. Una politica della memoria serve ad attivare la mobilitazione, a iniziare dal lavoro, dai referendum.

Queste sono alcune considerazioni sulla “politica della memoria”, che in questi tempi mi sembra sia praticata con maggiore destrezza dalla Destra piuttosto che dalla cultura e dalla politica che dovrebbero richiamarsi ai principi di giustizia distributiva (non oso nemmeno pronunciare il termine di “Sinistra”).

Cosa intendo dire? I movimenti populisti che ormai determinano la vita politica italiana da quasi mezzo secolo (la Liga Veneta, antesignana di Lega Nord, è roba degli anni 70), non hanno mai usato un fatto storico come elemento identitario. Fratelli d’Italia invece si richiama esplicitamente a un periodo specifico della storia, la Repubblica di Salò. Ma questo non impedisce loro di essere un partito della “nuova” Destra, che sa muoversi con molta spregiudicatezza. L’on. La Russa abbraccia l’on. Liliana Segre senza problemi, sventolando il vessillo della fiamma tricolore, cioè l’insegna di un regime che è stato in tutto e per tutto corresponsabile dello sterminio degli ebrei. Per questo le posture antifasciste nei confronti del governo Meloni mi sembrano imbelli, quindi incapaci di fare “politica della memoria”. Lo si è visto nelle recenti celebrazioni del 25 Aprile, dove i partiti che rappresentano in Parlamento l’opposizione non sono stati capaci di andare oltre l’intento celebrativo. Mentre, grazie al cielo, la coscienza diffusa della gente, dei giovani, sembra aver capito che non c’è antifascismo senza anticapitalismo e quindi che il 25 Aprile non si può assolutamente isolare, disgiungere, dal 1° Maggio. Lo hanno capito magari con la mediazione della questione palestinese, ma sembrano averlo capito. Sembrano aver capito che il momento giusto per parlare della precarizzazione del lavoro, della necessità di andare all’estero per avere salari decenti, della diffusione di condizioni di lavoro simil-schiavistiche, è il 1° Maggio. L’avversario è quel padronato italiano, quella imprenditoria, quel management, che hanno accumulato profitti senza sognarsi di distribuirne una parte ai lavoratori, ma nemmeno per permettere il recupero dell’inflazione. Siamo onesti: non è colpa di Fratelli d’Italia se la condizione del lavoro in questo Paese è ridotta in termini che sono la negazione totale dell’art. 1 della Costituzione. Una condizione del lavoro alla quale i governi di centro-sinistra, con tutte le misure di flessibilizzazione adottate, hanno dato un consistente contributo (dal pacchetto Treu del primo governo Prodi alle depenalizzazioni del governo Renzi, 1996-2015, sono vent’anni). In un certo senso i referendum ai quali siamo chiamati a partecipare oggi sono una conferma di questo.

Certo, anche Berlusconi ci ha messo del suo, anche certi governi tecnici, ma se oggi abbiamo una decina di diverse tipologie di contratti di lavoro – tutte concepite con l’idea di rendere il lavoro più “flessibile” – lo dobbiamo in gran parte a governi di centro-sinistra. Se oggi abbiamo “l’inverno demografico”, lo dobbiamo in gran parte al fatto che troppe donne sono state messe di fronte alla scelta se far figli o lavorare per vivere.

E qui veniamo alla questione del protagonismo operaio anni 70. Perché dico che bisogna praticare una “politica della memoria” che ponga al centro il protagonismo operaio degli Anni 70? Perché non tolleriamo più che questi anni vengano bollati come “anni di piombo”? Perché non tolleriamo più che l’editoria, i media, la televisione, il cinema continuino a rivangare le vicende del terrorismo, a sfornare ricostruzioni più o meno dettagliate delle imprese delle Brigate Rosse, di Prima Linea, dei GAP, di altri gruppi armati? 

No, e se questo a qualcuno può sembrare lo scopo di questo convegno, dico subito che a me non pare assolutamente sufficiente. Anzi, non è questo il problema. Limitarsi a questo sarebbe una “politica della memoria“ debole. “Ristabilire la verità” sugli Anni 70 non basta, occorre andare più a fondo e mettere in questione l’approcio “scientifico” alla storia di quel periodo, l’impianto metodologico che vogliamo dare alla sua ricostruzione. 

Perciò propongo di partire da un altro punto di vista, dal punto di vista del “passato utile”, usable past. E’ un concetto largamente impiegato nella cultura anglosassone, espresso per la prima volta da un critico letterario, Van Wyck Brook, in un articoletto di quattro pagine sulla rivista “The dial”, intitolato On Creating the Idea of a ‘Usable Past’, numero dell’11 aprile 1918. Il tema dell’articolo è il rapporto tra letteratura, storia e identità nazionale. Parlando della perdita di senso d’una identità collettiva da parte del popolo americano alla fine della prima guerra mondiale, l’autore si chiede dove trovarlo nel passato, nella memoria, questo senso di un’identità collettiva. E dice che è abbastanza semplice, perché non dobbiamo cercare chissà dove, in quanto siamo noi che decidiamo. Noi ricordiamo quello che scegliamo di ricordare: We elect to remember

Che cosa scegliamo di ricordare?

Nelle sue Considerazioni inattuali, scritte tra il 1873 e il 1876, Friedrich Nietzsche, in quella intitolata Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben (Sull’utilità e il danno della storia per la vita), riporta una citazione di Goethe, che dice: “Mi è odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività”. Se la storia (la memoria) non mi serve per essere una presenza attiva oggi, è inutile. 

Quindi, ripeto il ragionamento: vale la pena ricordare quello che in qualche modo ha a che fare con la nostra vita presente e con la nostra azione nella vita, cioè un passato è “utilizzabile” quando ci permette di affrontare le problematiche fondamentali del presente. 

Per me la problematica centrale dell’oggi in questo Paese è la mancanza totale di potere del lavoro, l‘impossibilità ad affermare una propria esigenza dentro il lavoro, l’impotenza a fare del rapporto di lavoro un rapporto negoziabile (“non le vanno bene le nostre condizioni? Guardi che fuori c’è la fila di gente che chiede di essere assunta”). Per questo sono bassi i salari, mica per altro. Dunque io scelgo di ricordare la grande stagione di emancipazione operaia degli Anni 70, perché questo mi dà forza nella mia presenza civile oggi. Chi sceglie di ricordare il terrorismo, non solo deforma quegli anni ma dimostra di non capire nulla della vita e dei problemi di oggi o di fregarsene altamente. Ditemi: la violenza politica oggi è un problema all’ordine del giorno?

Una volta stabilito che il passato più usable degli Anni 70 è il fenomeno di massa dell’emancipazione operaia, si pone il problema di quali strumenti metodologici dobbiamo dotarci per farne la storia. Un testo molto interessante – autori Renzo Baricelli e Claudio Nicrosini, dal titolo Storia di un capolavoro operaio. Il 1968 alla Bicocca di Milano,  uscito un paio d’anni fa, nel 2022 – ricostruisce la storia delle lotte contro il cottimo, che hanno assunto l’alone di prototipo dell’insubordinazione operaia degli Anni 70. E’ un testo fondato sui verbali del Consiglio di Fabbrica dove si può seguire giorno per giorno anche la dialettica tra i sindacati confederali e il famoso CUB, Comitato Unitario di Base. Gli autori definiscono il processo avvenuto come “trasformazione della mentalità operaia”. Cioè un processo marcato da una fortissima soggettività ma al tempo stesso un processo assolutamente collettivo, dove il rapporto tra individuo e massa, la fusione tra individuo e massa, si sono manifestati in modo da scatenare una reazione capace di sprigionare una potenza tale, da rovesciare parzialmente i rapporti sociali di forza, non solo in fabbrica.

Con quali strumenti metodologici si può ricostruire la storia di quella “trasformazione della mentalità”? Certamente la storia orale è lo strumento principe, quindi occorre ricorrere al patrimonio di interviste che sono state fatte negli anni e che si trovano sparse in centinaia di centri di ricerca, di istituti e così via. Ma io credo che potrebbe essere utile ricorrere anche all’approccio della histoire des mentalités così come hanno cercato di definirlo prima Lucien Febvre, fondatore degli Annales, e poi Michel Vovelle, in particolare nella sua raccolta di saggi Mentalités et idéologies. Inoltre, ho trovato molto utile attingere al fondo di circa 900 giornali di fabbrica, conservato presso la Fondazione Feltrinelli di Milano. Lo spoglio di circa un centinaio di essi – un campione molto limitato, lo riconosco – è stato però sufficiente per cogliere alcuni aspetti su cui poca chiarezza è stata fatta, mi riferisco – per esempio – al tema della “conflittualità permanente”. E’ un campione limitato, certamente, ma vi si trovano aziende come Honeywell, Siemens, Ercole Marelli, Lagomarsino, Candy, Dalmine, M.V. Agusta, Aermacchi, Cartiere Burgo, Asgen, Breda, Falck, T.I.B.B., Faema, Face Standard, Italsider, Bertone, Autelco, Innocenti, Nebiolo, Snam Progetti, Rank Xerox, IBM, GTE, Phillips, Franco Tosi, Crouzet, Redaelli, Loro Parisini, Telettra, Magneti Marelli, 3M, FIT Ferrotubi, RIV SKF, Selenia…. E si potebbe continuare, limitandoci alle fabbriche localizzate nel milanese o in Lombardia. Un elenco dal quale ho volutamente escluso Fiat, Petrolchimico di Marghera, Alfa Romeo, Pirelli…tanto per dare un’idea della diffusione del sistema industriale italiano allora e per far capire che sotto la dizione “emancipazione operaia” noi stiamo parlando di milioni, milioni di persone, donne e uomini, il cui volto al 99,9% ci è ignoto. Riscoprire la storia dell’emancipazione operaia significa ridare un volto, ridare la parola, a quei milioni di donne e uomini.

Il tema dello usable past era già presente nelle riviste radicali di storici del Sessantotto, sto pensando a “Radical America” (1967). La nostra nozione di “storia militante”, quella che abbiamo applicato nella rivista “Primo maggio” (1973) è quasi identica nella concezione del rapporto tra passato e presente all’idea dello usable past. In parte lo è anche l’idea ”dell’uso pubblico della storia” (Nicola Gallerano e buona parte degli storici della mia generazione). E poi non bisogna dimenticare proprio la lezione della scuola degli Annales sulla priorità dei fenomeni di massa rispetto alla storia delle élites.

Tutti elementi che mi fanno ritenere la storia del personale politico, dei gruppi armati o dei gruppi extraparlamentari, come largamente insufficiente a rendere conto di una presa di coscienza di massa che riscontriamo nella storia del femminismo o nella storia dell’emancipazione operaia. In effetti, se noi pensiamo alla scoperta della donna come donna, alla scoperta del proprio corpo, alla scoperta della propria percezione del mondo, così diversa dalla percezione maschile, la vicenda del femminismo è quella che meglio ci può aiutare a ricostruire la storia dell’emancipazione operaia. Letta solo attraverso la storia del personale politico, la trasformazione avvenuta nel paese negli Anni 70 è largamente riduttiva. Tanto che a me sembra più importate sottolineare, enfatizzare, la specificità dell’esperienza italiana piuttosto che allargare lo sguardo alla dimensione internazionale, dove, in un certo senso, la vicenda italiana un po’ annega e quindi si annacqua nel “sovversivo” globale. In questo senso il libro di Michael Hardt, I Settanta sovversivi. La globalizzazione delle lotte, uscito ora per Derive&Approdi, va molto apprezzato perché mette in risalto l’importanza della conflittualità operaia, ma a mio avviso ancora non soddisfa pienamente la necessità e l’urgenza di riequilibrare la narrazione sugli Anni 70 in Italia.

Per tornare brevemente alla lettura dei giornali di fabbrica. Questa fonte è preziosa perché permette di seguire la vita di fabbrica giorno per giorno. E una cosa salta agli occhi immediatamente: la frequenza con la quale degli accordi sindacali sottoscritti dalle parti non vengono rispettati dalla parte padronale. Solo un paio di citazioni:

le conquiste dei lavoratori sono sempre contestate; si lotta per ottenere buoni accordi; si deve lottare per farli rispettare e si deve lavorare per mantenere determinati rapporti di forza perché, mutando questi, il padronato torna alla carica per riprendere quanto è stato costretto a dare (“il pungolo”, Bollettino SSA FIOM CGIL dell’Asgen)

Dopo circa sette mesi di stasi sindacale, i lavoratori hanno dovuto imboccare ancora una volta la via della lotta per far rispettare le conquiste contrattuali (inquadramento unico, investimenti produttivi, occupazione, riforme ecc.) non attuate dai padroni, dal governo (C.G.E. sindacale unitario a cura del CdF)

Constatato l’andazzo aziendale sull’orario di lavoro si pone con urgenza l’invito alla direzione a rispettare il contratto in tutti i sensi ed a far cessare lo sconcio del lavoro a domicilio che, oltre ad essere illegale, permette all’azienda di realizzare alti profitti (ancora Bollettino ASGEN)

Che il non rispetto degli accordi fosse diventato un’abitudine si evince anche da un documento interno di una grande azienda milanese, scritto dal capo del personale e indirizzato alla direzione, dove si legge: “Quasi dappertutto, nelle piccole aziende ma anche in alcune delle più grandi, si cerca di non dar corso agli accordi siglati in sede di rinnovo dei contratti nazionali”. E ancora: “C’è ancora, diffusa in larghi strati della vecchia dirigenza industriale, l’idea che i sindacati vadano affrontati con l’astuzia e ricorrendo a sottili sotterfugi giuridici”. E ancora: “In fabbrica e negli uffici, molte delle più limpide e qualificanti conquiste sindacali in materia di normativa e di diritti, sono state profondamente inquinate e stravolte dal costume diffuso nelle aziende” (l’autore è un mio compagno d’università al quale sono molto legato; abbiamo lavorato tutti e due all’Olivetti, lui in ruoli molto più importanti, che poi ha svolto anche in altre aziende, tra cui quella alla quale questo documento di riferisce).

Per non parlare dell’ambiente di lavoro. Dopo la firma del contratto dei metalmeccanici del 1969 nulla viene fatto sull’adeguamento degli impianti, in modo da eliminare i più grossolani fattori di nocività. Risulta da un’inchiesta della FIOM del 1972. Alla Dalmine (!) il giornalino di fabbrica denuncia che nei reparti si muore di freddo e per scaldarsi gli operai hanno dovuto procurarsi dei bidoni di benzina, buttarci dentro dei pneumatici usati e darci fuoco, per avere meno freddo, riempiendo quindi i reparti di fumi tossici. 

Questi scorci di realtà ci dicono delle cose di una certa rilevanza. Ci dicono 1) la totale indisponibilità del padronato a venire incontro alla richieste operaie, 2) la necessità degli operai e del sindacato dei consigli, espressione della base, di raprire delle vertenze considerate ormai concluse. Come mai ha avuto il sopravvento la narrazione di una classe operaia incontentabile? Come mai si è potuto parlare, facendola diventare quasi luogo comune, di “conflittualità permanente”? Si capiscono allora le parole di Bruno Trentin che, non ricordo dove, disse qualcosa come “il padronato non ha voluto nemmeno “provare” a mettere in pratica una delle mille proposte di modificazione dell’organizzazione del lavoro avanzate dal sindacato”. E Sandro Antoniazzi, segretario della FIM CISL di Milano, uomo vicinissimo a Pierre Carniti, dichiara in un’intervista: “Allora occorrevano delle riforme necessarie. Quella della sanità, per esempio, è stata l’unica grande vera riforma. Quella sull’edilizia poca roba. Nella riforma della scuola hanno fatto finta di dare la democrazia. Era quella democrazia che dopo mille riunioni hai deciso dove fare la gita turistica della classe, quindi è servita a niente, non c’è stato un cambiamento vero nella scuola. Ci si aspettava che da questo grande movimento sociale ci fosse anche un grande cambiamento della politica. Noi – che eravamo, come dici tu, pan-sindacalisti – siamo andati da tutti i partiti, avevamo buoni rapporti con tutti, con tutti i gruppi di sinistra, DC, socialisti, persino con quelli del PC che discutevano di meno.

Cosa avete ottenuto dalla politica?

Niente, niente, perché nessuno di questi era in grado.”

Non c’è stata da parte del ceto politico nessun segnale di recepimento della spinta innovativa della classe operaia. Più che chiusura possiamo parlare di “un’impermeabilità culturale”. E anche questo non è entrato nella narrazione, anche la storia del capitale è stata fatta solo come “anni di piombo”. Si è parlato fino alla noia di scandali, di banchieri trovati impiccati sotto i ponti di Londra, dei Cefis, dei Sindona, dei servizi deviati. Se invece di parlare dell’aspetto criminal-mafioso noi prendessimo in considerazione solo “l’imprenditore normale” degli Anni 70, quello che si è barcamenato tra il mancato rispetto dei contratti firmati e la cassa integrazione, forse capiremmo meglio anche la miseria del padronato di oggi (salvo certe eccezioni, naturalmente).