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Un sussulto politico per l’uguaglianza

Sullo scacchiere internazionale prevale la pretesa di dignità solo dei forti. Speculare è il predominio politico, economico, fiscale di ricchi e ultra ricchi, un’oligarchia globale che beneficia da anni di una ridistribuzione alla rovescia. Lo certifica l’ultimo rapporto di Oxfam, dedicando anche ampio spazio al nostro Paese.

Lo scatto sul mondo, proposto nel rapporto annuale di Oxfam, Disuguaglianza: povertà ingiusta e ricchezza immeritata, restituisce l’immagine di società attraversate da faglie profonde e di una realtà piena di contraddizioni che generano smarrimento, sgomento, talvolta senso di impotenza.

Assistiamo, sgomenti, a conflitti cruenti e all’avanzare, sullo scacchiere internazionale, di una pericolosa deriva incardinata sulla pretesa di riconoscimento della dignità solo ai forti. Una pretesa che si pone in antitesi con il diritto, costruito nei secoli, che tutela i deboli e pone il rispetto alla base della pace.

Assistiamo, preoccupati, agli impatti nefasti del cambiamento climatico e agli imperdonabili ritardi della politica sul cammino di una transizione ecologica giusta, capace di ridurre l’impatto dell’attività umana sul pianeta, senza lasciare indietro nessuno.   

Una simmetria perversa

L’aumento della precarizzazione economica di ampie fasce della popolazione globale e le crescenti disuguaglianze – fenomeni tristemente distintivi del nostro tempo – rappresentano il risvolto di un sistema economico poco dinamico ed incapace di generare benessere per tutti. Un sistema iniquo che premia i più abbienti e spreme sempre di più il resto della società. A rilevarlo ci sono dati eloquenti. Sospinti da una performance record dei mercati finanziari, i patrimoni degli ultra-ricchi sono lievitati nel 2024 di 2.000 miliardi di dollari in termini reali, a un ritmo tre volte superiore rispetto all’anno precedente. Di contro, il tasso annuo di riduzione della povertà globale registra da un quinquennio un forte rallentamento. Senza una crescita inclusiva, eradicare la povertà estrema entro il 2030 (“al netto” delle considerazioni critiche circa la sua misurazione) – un impegno assunto 10 anni fa dalla comunità internazionale – resterà un miraggio. Con la conseguenza di vedere decine di milioni di persone intrappolate in una vita di stenti, con risorse esigue che non garantiscono l’accesso a una dieta sana o a servizi igienici di base, in una quotidianità che non ha minimamente i tratti di un’esistenza dignitosa.  


Un sistema economico neocoloniale

I rapporti economici internazionali vanno oggi sempre più caratterizzandosi per forme moderne di colonialismo. Il predominio delle valute del Nord nel sistema dei pagamenti internazionali e i costi di finanziamento più bassi nelle economie avanzate sono alla base di forti squilibri nei flussi di redditi da capitale: ogni anno il Nord “estrae” quasi 1.000 miliardi di dollari dal Sud. Il Sud del mondo contribuisce per il 90% alla forza lavoro globale, ma riceve solo il 21% del reddito da lavoro aggregato. I divari salariali sono marcati: si stima che i salari dei lavoratori del Sud siano inferiori dell’87-95%, a parità di competenze, rispetto a quelli del Nord. I Paesi a basso e medio reddito spendono inoltre, in media, quasi la metà dei propri bilanci per rimborsare il debito estero, spesso contratto con ricchi creditori di New York e Londra. A metà del 2023, il debito globale ha raggiunto il livello record di 307.000 miliardi di dollari e 3,3 miliardi di persone vivono oggi in Paesi che destinano più risorse per il servizio del debito che per istruzione e sanità.

La fallace narrazione meritocratica

Le disuguaglianze che il sistema economico perpetua trovano una legittimazione morale in una potente narrazione che, snaturando il concetto di merito, molto radicato nel senso comune, assurge la meritocrazia a principio ordinatore di una società giusta.   

A ben vedere, larga parte della ricchezza estrema è difficilmente ascrivibile a meriti individuali, ma riconducibile ad eredità (per il 63% in Italia), a sistemi di relazioni clientelari con la politica e all’immenso potere di mercato esercitato dalle imprese che i super-ricchi controllano o dirigono. Fattori – come vantaggi ingiustificabili o regole del gioco inique – di cui la meritocrazia, trascurando parimenti la natura sociale del merito, si disinteressa del tutto.

A proposito di vantaggi ingiustificati, la trasmissione intergenerazionale di grandi fortune sta oggi facendo prepotentemente emergere una nuova aristocrazia planetaria. Nel 2023 la quota di ricchezza dei nuovi miliardari derivante da eredità ha superato quella attribuibile all’attività imprenditoriale. Tutti i miliardari del mondo sotto i 30 anni hanno ereditato i propri patrimoni: è la prima ondata di un processo noto come “il grande trasferimento di ricchezza” per cui si prevede che nei prossimi due-tre decenni più di 1.000 miliardari lasceranno asset per oltre 5.200 miliardi di dollari ai propri eredi. Un trasferimento che resterà in gran parte non tassato: due terzi dei Paesi del globo non assoggettano a tassazione i lasciti ai discendenti diretti e metà dei miliardari del mondo vivono in Paesi i cui sistemi fiscali non prevedono alcuna imposta di successione.

Ritornando alla questione del merito, politiche pubbliche ancorate a discutibili criteri di meritevolezza feriscono il diritto all’uguaglianza, ponendosi in stridente contrasto, nel contesto italiano, con le prescrizioni costituzionali alla rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale, lesivi dei diritti delle persone e della loro piena realizzazione, senza distinzioni. Ne sono un triste esempio le misure categoriali di contrasto alla povertà che stabiliscono in modo profondamente ingiusto chi, trovandosi in condizione di disagio economico, sia meritevole o meno di supporto pubblico. O le politiche fiscali che, in palese violazione del contratto sociale, offrono migliori condizioni di trattamento a chi ha maggiore potere o il “merito” di appartenere all’elettorato di riferimento di chi governa il Paese. O le politiche del lavoro che, trascurando l’apporto dei lavoratori alla creazione di valore (avranno un qualche merito?), ne indeboliscono il potere contrattuale e le tutele. O ancora, le politiche di decentramento, basate sull’idea che i territori più ricchi, in quanto tali, abbiano diritto (“meritino”?) a maggiori servizi.   

É il quadro sconfortante che emerge dalle valutazioni di Oxfam sull’azione di governo nel 2024.

Segmentare e fare cassa sui poveri

L’andamento positivo del mercato del lavoro nel 2023 non ha comportato la riduzione dell’incidenza della povertà assoluta, ostacolata dall’impatto dell’inflazione ancora elevata e con effetti più marcati sulle famiglie meno abbienti. La dinamica del 2024 risentirà verosimilmente del rallentamento dell’economia nazionale, ma peserà anche la portata delle misure di contrasto alla povertà che hanno sostituito il reddito di cittadinanza. Misure che, abbandonando l’universalismo selettivo e ispirandosi ad un iniquo ed inefficiente approccio categoriale, riportano il nostro Paese indietro di sette anni nella lotta alla povertà. Rispetto al reddito di cittadinanza, il novellato Assegno di Inclusione ha comportato una contrazione del 37,6% del numero dei nuclei beneficiari e uno scostamento maggiore – eccezion fatta per i nuclei con minori – tra le famiglie che beneficiano del sussidio e quelle in povertà assoluta nel nostro Paese. Fallimentare fin qui risulta anche l’esperienza del Supporto per la Formazione ed il Lavoro. Le politiche attive fin oggi erogate ai suoi fruitori sono foriere di poche chance occupazionali, troppo “leggere” e non in grado di garantire visibilità all’interno del mercato del lavoro, prefigurando una lenta transizione dall’occupabilità alla disperazione.

La democrazia fiscale violata

Il Governo appare poco preoccupato dal fatto che i contribuenti italiani più ricchi versino al fisco, in proporzione al proprio reddito, meno imposte dirette, indirette e contributi, rispetto ai cittadini con redditi più bassi e che l’85% degli italiani, trasversalmente a tutti i partiti, ritenga il nostro sistema fiscale profondamente iniquo. Le misure del Governo in materia fiscale dell’ultimo anno – dalla revisione dell’IRPEF all’ampliamento del regime forfettario, dalla tassazione dei fringe benefit al concordato biennale preventivo – mostrano forte disattenzione all’equità distributiva e un tradimento della democrazia fiscale. Preservare la frantumazione del sistema fiscale italiano in molteplici regimi preferenziali e scendere, in nome della lotta all’evasione, a patti iniqui con i contribuenti ritenuti meno fedeli al fisco è indicativo della poca attenzione dell’esecutivo per la tenuta del contratto sociale. L’Italia resta un Paese in cui sempre gli stessi pagano le imposte per sostenere quel che rimane dei beni e servizi pubblici di carattere universalistico. Beni e servizi cui corrispondono diritti sociali come la sanità e l’istruzione, oggi ampiamente sottofinanziati e permanentemente a rischio di tagli.

Il mercato del lavoro. Non è tutto oro quel che luccica

La ripresa occupazionale post-pandemica con il tasso di occupazione al 62,4% – trainato dall’occupazione over50 – o quello, ai minimi storici, della disoccupazione, spiegato in parte dall’aumento degli inattivi la cui incidenza colloca l’Italia in cima all’UE – non devono distogliere l’attenzione dai problemi strutturali del mercato del lavoro nazionale. Persistono forti squilibri territoriali tra aree ad alta e a bassa occupazione e forti ritardi occupazionali nei confronti dell’UE. I giovani e le donne continuano a subire una marcata sotto-occupazione e una qualità lavorativa più bassa.

A fare da contraltare alla dinamica occupazionale positiva è la questione salariale. Il mercato del lavoro italiano è infatti contraddistinto da una moderazione salariale di lungo corso: il salario medio annuale reale è rimasto pressoché invariato negli ultimi trent’anni.

Nel periodo più recente, tra il 2019 e il 2023, le retribuzioni lorde effettive sono cresciute in media del 6-7%. Quelle nette sono cresciute di ulteriori 3 p.p. circa per effetto del taglio del cuneo contributivo e, in misura marginale, per quello derivante dai diversi interventi di riforma dell’IRPEF. Comunque misurata, nello stesso periodo, l’inflazione cumulata si è attestata intorno al 17-18%, causando una contrazione del salario lordo reale di oltre 10 p.p. Se, anziché ricorrere agli indici generali, si facesse riferimento alla variazione dei prezzi dei soli beni alimentari (come approssimazione dei beni maggiormente consumati dai lavoratori con basse retribuzioni), pari a circa il 25% nel periodo in esame, il confronto con la dinamica salariale nominale assumerebbe connotati di incontrovertibile gravità.

Piuttosto che adottare toni acriticamente trionfalistici sulla crescita dell’occupazione, il Governo avrebbe dovuto affrontare con maggior vigore le datate debolezze strutturali del mercato del lavoro italiano, favorendo la riduzione dei divari retributivi e delle sacche di lavoro povero. Non sembra tuttavia questa l’intenzione dell’esecutivo. Una chiara politica industriale, orientata alla creazione di buona occupazione, resta del tutto assente, accompagnata da un immobilismo sul rafforzamento della contrattazione collettiva e sulla revisione del sistema di fissazione dei salari, nonché dall’affossamento del salario minimo legale come tutela dei lavoratori più fragili e meno protetti. Insistere sulla liberalizzazione dei contratti a termine, di somministrazione e stagionali e ridurre le tutele del lavoro negli appalti rischia di esasperare ulteriormente saltuarietà, discontinuità e precarietà lavorativa.

Lo #SpaccaItalia

La legge sull’autonomia differenziata ha rappresentano nel 2024 un ulteriore elemento di forte preoccupazione e sconcerto, ponendosi in netta antitesi ad un’azione di contrasto alle disuguaglianze. Il regionalismo competitivo cui è improntata la legge Calderoli, invalidato alla radice dalla Corte Costituzionale, ha messo ulteriormente a repentaglio l’uguaglianza dei cittadini che già oggi scontano gravi divari nella disponibilità e nella fruizione di servizi pubblici, marcatamente differenziati a seconda del territorio di residenza. In contrasto con l’idea di un regionalismo solidale, le scelte del Governo rischiano di trasferire, senza valide motivazioni, alle Regioni a statuto ordinario molteplici competenze esclusive su temi fondamentali delle politiche pubbliche e prefigurano un passaggio dal bilancio dello Stato a quello delle Regioni di una porzione consistente della spesa pubblica con un incentivo all’utilizzo poco efficiente e trasparente delle risorse. 

La strada in salita per l’uguaglianza

Le disuguaglianze non sono né casuali né ineluttabili. Sono il risultato di scelte politiche che hanno prodotto negli ultimi decenni profondi mutamenti nella distribuzione di risorse, dotazioni, opportunità e potere tra i cittadini. Scelte che vanno profondamente ripensate. Per ricucire i divari economici e sociali, servono in primis interventi di carattere predistributivo che prevengano, a monte, un’iniqua distribuzione di potere ed esiti economici sui mercati. Interventi che supportino le dotazioni finanziarie e di capitale umano per chi proviene da un background svantaggiato, nonché profonde revisioni delle regole che governano i processi economici come il rafforzamento della tutela della concorrenza, politiche di regolamentazione finanziaria in grado di ricondurre la finanza al servizio dell’economia reale, politiche industriali che sostengano una competitività basata sull’innovazione e sulla buona occupazione e non sui bassi salari, politiche del lavoro che rafforzino il potere contrattuale dei lavoratori e limitino il ricorso a forme di occupazione non standard. Le politiche predistributive devono essere accompagnate dal rafforzamento dell’azione redistributiva dello Stato attraverso sistemi fiscali più equi e trasferimenti pubblici adeguati a cittadini e famiglie in condizione di bisogno.

Cambiare rotta è un imperativo categorico, sebbene l’attuale contesto politico renda il compito impervio. Un contesto caratterizzato dal radicamento di proposte politiche – dagli Stati Uniti a tanti Paesi europei, tra cui l’Italia – che cercano consenso creando artificiali contrapposizioni tra gli emarginati, accentuando paure, insicurezze e tensioni nella società. Una strategia che, puntando al soddisfacimento di obiettivi di identità, permette di tenere (quanto a lungo?) in secondo piano il mancato raggiungimento di risultati economico-sociali a beneficio dei più vulnerabili, mentre persegue politiche che avvantaggiano chi è già in posizione di privilegio. Un pessimo viatico per un’economia più inclusiva e società più dinamiche ed eque, cui va con urgenza contrapposto un sussulto politico per l’uguaglianza. Nel nome di un futuro più giusto per tutti.

Mikhail Maslennikov è analista di policy sui dossier di giustizia economica di Oxfam Italia

Una versione sintetica di questo articolo apparirà sul numero di marzo di Mosaico di Pace