L’Europa dovrebbe avere un “di più” di democrazia rispetto agli stati, ma le vie per raggiungerla restano incerte. L’analisi di Balibar sulla cittadinanza come spazio di conflitto incrocia il ruolo dei movimenti analizzati da Kaldor
Intervenendo nel dibattito aperto quest’estate da Jürgen Habermas sulla crisi europea («il manifesto» del 20 settembre e sbilanciamoci.info), Étienne Balibar ha riproposto una tesi formulata ormai da diversi anni: l’idea cioè che l’Europa politica sia sì necessaria, ma che al tempo stesso – per essere «legittima e quindi possibile» – essa debba realizzare un «sovrappiù» di democrazia rispetto agli Stati nazione che la compongono. Il punto è, tuttavia, che questo «sovrappiù» di democrazia non sembra più pensabile nei termini di una continuità lineare con i processi di «democratizzazione» che hanno caratterizzato la storia dello Stato nazione in Europa: con quei processi cioè che, per quanto contraddittoriamente (e con la cesura dei fascismi), a partire dall’Ottocento hanno determinato una progressiva estensione del suffragio e un arricchimento «intensivo» dei diritti di cittadinanza, culminato nella costruzione dello Stato sociale democratico.
Balibar lo riconosce, e introduce – come a saggiarne la produttività – una serie di categorie che all’interno dei dibattiti critici vengono impiegate per «reagire» a questa soluzione di continuità, che rende problematica ai suoi occhi l’insistenza di Habermas su un «costituzionalismo normativo»: democrazia partecipativa, governance, democrazia conflittuale, costruzione del comune, contro-democrazia. Si tratta di ipotesi teoriche non necessariamente compatibili l’una con l’altra: ma Balibar, lungi dal proporre una sintesi tra di esse, sembra essere interessato – coerentemente con il suo stile di pensiero – a porle in tensione, con l’obiettivo di produrre un campo teorico e politico al cui interno sia possibile avanzare nella ricerca di un’uscita in avanti, a sinistra, dalla crisi europea.
L’universo postnazionale
La recente pubblicazione di un libro dello stesso Balibar (Cittadinanza, traduzione di Fabrizio Grillenzoni, Bollati Boringhieri, pp. 178, euro 9) consente di comprendere meglio l’orizzonte del suo discorso. Fin dall’inizio degli anni Novanta, del resto, Balibar è stato uno dei protagonisti di una nuova stagione di studi sul tema della cittadinanza, che pareva a molti offrire, all’indomani della fine dei socialismi reali, un linguaggio adeguato alla riqualificazione di una teoria politica (più o meno radicalmente) democratica. La critica femminista, e quella che aveva lavorato attorno ai temi della «razza», avevano sì lacerato la figura astratta del cittadino, già messa duramente in discussione dalle critiche marxiste; ma avevano anche inaugurato un modo nuovo di guardare alla cittadinanza, considerandola in primo luogo – per dirla in breve – non più come uno status ma come uno spazio di conflitto e di «movimento». Gli stessi movimenti sociali del resto (quello dei sans papiers del 1996, ad esempio, ma anche movimenti in cui non erano centrali le istanze dei migranti) parlavano sempre più spesso il linguaggio dei diritti e della cittadinanza, mentre l’istituzione della cittadinanza europea pareva mettere in discussione il nesso tra cittadinanza e nazione.
Sull’insieme di questi temi, la riflessione di Balibar è stata un riferimento essenziale, capace di coniugare impegno militante e rigore teorico, denuncia dei rischi che si annidavano all’interno della stessa configurazione «post-nazionale» della cittadinanza europea e scelta di campo comunque netta contro ogni ripiegamento neo-nazionalistico e per l’Europa politica. Il respiro del grande storico della filosofia, d’altra parte, gli ha consentito di definire un approccio originale ai concetti politici fondamentali della modernità, a partire da una ricostruzione genealogica delle figure assunte dalla soggettività (si veda il recente Citoyen Sujet, et autres essais d’anthropologie philosophique, P.U.F., 2011). Fin dalle prime pagine di questo nuovo libro, il concetto di cittadinanza è indagato nella relazione che originariamente (nella tradizione filosofico-politica europea) lo stringe con quello di democrazia. Non nel senso che tra i due concetti vi sia coincidenza: al contrario, secondo Balibar, la democrazia costituisce il centro attorno a cui gravita la filosofia politica fin dall’antichità classica proprio perché «è la democrazia che rende l’istituzione della cittadinanza problematica». Dall’interno di un dialogo serrato con alcuni dei protagonisti dei dibattiti contemporanei (per fare qualche nome: Chantal Mouffe e Jacques Rancière, Toni Negri e Wendy Brown), Balibar rintraccia in questo rapporto tra cittadinanza e democrazia, nella potenziale assolutezza della seconda che interviene a far esplodere ogni chiusura della prima, il «motore» delle trasformazioni politiche. Un’originale interpretazione del concetto greco di politeía (tradotto con res publica dai latini e poi dagli inglesi con polity e commonwealth) gli consente di individuare lo spazio – la «costituzione di cittadinanza» – al cui interno si assestano i rapporti tra quelli che Balibar aveva definito in Le frontiere della cittadinanza (Manifestolibri 1993) i due poli della politica moderna: la «costituzione», appunto, e l’«insurrezione».
Il diritto ad avere diritti
È così delineato un punto di vista metodologico che guida la ricostruzione degli scarti concettuali e delle svolte storiche che segnano il percorso della cittadinanza moderna. Grandi temi, di rilievo tutt’altro che «antiquario», ne sono investiti e felicemente rinnovati. Ne scelgo solo un paio: l’autonomia del politico viene ricondotta da Balibar a un processo di secolarizzazione, di critica di ogni fondazione trascendente, che la consegna a un «piano di immanenza»; al tempo stesso, l’analisi critica della globalizzazione contemporanea mostra tanto l’impossibilità di una «chiusura autarchica» attorno a una «comunità» organizzata nelle forme dello Stato nazionale quanto quella di una separazione della politica dalle «condizioni materiali della vita». Le «Dichiarazioni dei diritti», che hanno avuto un ruolo così importante nella storia moderna della cittadinanza, si presentano d’altro canto agli occhi di Balibar non come semplici «limiti» all’azione dei poteri ma come documenti in cui si è iscritto l’insieme delle conquiste rese possibili dall’azione collettiva e da una storia di lotte, nonché al tempo stesso come «punti d’appoggio per nuove invenzioni». Riletta in chiave «costituente», e dunque assegnata senz’altro al polo «insurrezionale» della politica moderna, la figura arendtiana del «diritto ad avere diritti» si incarica di mantenere aperto questo spazio di «invenzione democratica» (Claude Lefort): non solo sul lato dell’«esclusione» dalla cittadinanza, ma anche all’interno dei conflitti che sorgono dalla «violenza dell’inclusione» (e la critica di una opposizione secca tra esclusione e inclusione è uno degli aspetti più preziosi di questo libro).
L’ipotesi di una «cittadinanza conflittuale» che sembra così emergere era stata del resto già impiegata da Balibar, con un riferimento machiavelliano, per definire la figura assunta dalla cittadinanza stessa all’interno dei sistemi di welfare, in quello che definisce lo «Stato nazional-sociale». Qui in effetti, sotto la spinta incessante delle lotte operaie, era parsa trovare espressione in una figura «dialettica», in specifici diritti e meccanismi istituzionali, la mediazione tra «costituzione» e «insurrezione». E dall’interno di quell’esperienza storica potevano sembrare convincenti ricostruzioni della storia della cittadinanza (come quella del sociologo inglese T.H. Marshall in Cittadinanza e classe sociale, Laterza) nei termini di un movimento continuo e progressivo di democratizzazione. Il fatto è, tuttavia, che quella storia si è interrotta. Balibar ne è ben consapevole, tanto da scrivere nel primo capitolo del libro che il «potere stesso» della categoria di cittadinanza, «cioè la capacità di reinventarsi storicamente, sembra improvvisamente annientato». L’analisi del neoliberalismo, condotta alla luce del concetto di «de-democratizzazione» e con attenzione particolare alla crisi della rappresentanza, porta copiosi argomenti a supporto di questa eventualità, qui presentata in termini più netti che altrove. Resta così al lettore l’impressione di uno iato, di un salto, quando nelle pagine conclusive Balibar torna a ragionare con la solita maestria attorno al progetto di «democratizzare la democrazia», a partire da una dimensione di «cittadinanza riflessiva», capace di ritornare «ai principi» – ovvero alla radice conflittuale della propria storia.
Oltre le alchimie istituzionali
È in fondo un’impressione non diversa da quella che suscita una battuta nell’intervento in risposta a Habermas da cui sono partito. «Bisognerà pure», scrive qui Balibar verso la fine dell’articolo, che sulle questioni poste dalla crisi europea «si faccia avanti qualcosa come un’opposizione o un movimento sociale». Colpisce in effetti la timidezza, il carattere quasi incidentale, di questa osservazione, che mi pare tocchi il punto centrale della crisi in atto (e non dimentichiamo che in questi anni di crisi le mobilitazioni e le lotte in Europa, come ha ad esempio ricordato Mary Kaldor su «il manifesto» di domenica e su sbilanciamoci.info, hanno intrattenuto con la dimensione europea un rapporto quantomeno problematico). Per dirla in estrema sintesi: non sembra esserci oggi in Europa una «costituzione» disponibile a recepire – per quanto in modo contraddittorio – le istanze proposte dai movimenti di «insurrezione» (utilizzando, come è ovvio, il termine nel significato che gli attribuisce Balibar). Siamo piuttosto in presenza di una trasformazione profonda della stessa istituzionalità europea (nonché delle alchimie geografiche del processo di integrazione) che la rende impermeabile a ogni progetto di «democratizzazione della democrazia» e funzionale esclusivamente a un’«uscita neoliberale» dalla crisi che, nella sua apparente impossibilità, ha già ora un impatto devastante (ancorché evidentemente differenziato) sulle società europee. E tuttavia il problema posto da Balibar rimane: il ripiegamento sulla dimensione nazionale non può che essere disastroso, l’Europa politica è necessaria, una nuova ipotesi costituente è più urgente che mai. La ricerca deve ripartire da qui, dalla riflessione sui soggetti capaci materialmente di sostenere questa ipotesi e dall’individuazione di una tattica che consenta finalmente di mettere all’ordine del giorno la costruzione di una forza e di un programma per conquistare l’Europa a una politica – per dirla ancora con Balibar – della libertà e dell’uguaglianza.