Come la Cina si relaziona con la sua ascesa, il movimento dei giovani “sdraiati”, il ruolo delle ong, la repressione delle lotte operaie, la pandemia: Diego Gullotta indaga la nuova Cina con quattro angolature diverse.
“Dentro la Cina: quattro studi sull’ascesa cinese” di Diego Gullotta è una delle ultime pubblicazioni di Mimesis edizioni.1) Un titolo piacevolmente ingannevole che tradirà le aspettative di chi cerca un punto di vista sull’ascesa cinese così come viene comunemente declinata. Infatti, “il libro non si interroga sul ruolo della Cina globale, non affronta la Cina dal punto di vista geopolitico” (p. 9). Questo testo ci propone invece quattro diverse angolature per osservare come la società cinese si relaziona con la sua ascesa.
D’altronde, l’autore vive in Cina da quasi vent’anni e dopo anni di ricerche sul campo ed esperienze accademiche che lo hanno portato in molti angoli del paese, oggi è docente di “Cultural Studies” presso la East China Normal University di Shanghai. L’ascesa, per lui, i suoi studenti, e chi lo circonda non vuol dire solo sfida geopolitica. Cosa succede nella società cinese mentre ascende è altrettanto, se non più, rilevante. Questi quattro studi etnografici soddisferanno, quindi, i palati di chi si interroga sulle trasformazioni cruciali che hanno attraversato il paese nell’ultima decade. Tuttavia, non ci si aspetti racconti ma studi, con tutte le complessità che ne conseguono.
Si parte “danzando fra le autorità”. Un primo capitolo che ragiona sui limiti e le potenzialità della ricerca sul campo nella Cina di Xi. Si esplorano i rapporti di potere e le molteplici forme di autorità che non si esauriscono nel ruolo pervasivo del partito-Stato. È infatti lecito chiedersi quanto sia possibile avanzare una ricerca autonoma in un contesto autoritario come quello cinese. Ancor più nell’esasperazione del paradigma securitario che ha fatto seguito allo scoppio della pandemia. Se l’autore non nega che ciò sia difficile, traccia una strada per renderlo possibile, anzi necessario. La dedizione alla metodologia della ricerca sociale rende il primo capitolo una lettura densa, ma credo assolutamente utile a chi muove i primi passi nell’etnografia, non solo quella “made in China”. Il capitolo si dipana in tre parti. In primo luogo, si affronta la polifonia del campo. Le pulsioni, le voci e le azioni degli attori sociali corrispondono a suoni che si mescolano con l’osservazione, il pregiudizio, la rappresentazione e l’autorità del ricercatore e del “campo” stesso. Gullotta ci restituisce immediatamente perché l’autorità per un antropologo non possa ascriversi alle sole strutture del potere politico. L’autorità del partito-Stato non viene negata ma è l’autoritarismo ad essere “dislocato attraverso l’analisi dei rapporti di potere” e plasmato quindi dalla “presenza delle tante e diverse autorità che affollano il campo della ricerca” (p.10). In secondo luogo, si entra nel merito dell’etnografia cinese, la sua letteratura, i limiti e le opportunità che offre. La relazione tra sicurezza, controllo e partito-Stato è centrale. Eppure ho trovato di particolare interesse non lo solo la descrizione della dimensione oggettiva della sorveglianza ma la sua percezione soggettiva. Se “il controllo totale è impossibile, serve a creare l’idea che ci sia un potere in grado di controllare” (p. 26). L’autoritarismo non solo come ubiquità del partito-Stato, ma come forma di controllo che autonomamente si impone quando il ricercatore è immerso in un paradigma securitario. Quest’ultimo aspetto mi ha dato utili elementi ad elaborare quanto vissuto in prima persona nella preparazione e nell’esecuzione della mia breve ricerca sul campo a Pechino.
Infine, il capitolo si chiude con uno spiacevole aneddoto sulle difficoltà concrete che si incontrano nel fare ricerca o più precisamente in questo caso con-ricerca. Il tema sono le ONG del lavoro, la cui ascesa e crisi d’identità sarà trattata nell’ultimo capitolo. Un progetto iniziato per indagare la soggettività dei lavoratori migranti interni si è rapidamente trasformato in un’indagine sull’organizzazione stessa che ospitava Gullotta e la suo collega Lin Lili.2) Nonostante la mutazione, la ricerca si è rivelata proficua e stimolante ma questa “collaborazione” non sarebbe durata ancora a lungo. Un episodio di violenza sessuale a danno di una dipendente ha prodotto il licenziamento della stessa e l’indignazione dei ricercatori che si sono allontanati dal campo.
Infatti, “se lo Stato “autoritario” è stato presente in modo indiretto, sono state le autorità presenti sul campo che hanno dato vita a una fitta trama di relazioni di potere: la gerarchia dell’organizzazione, la divisione di genere, il rapporto di inclusione-esclusione nei confronti dei subalterni della comunità” (p. 37).
Si tornerà a parlare di queste ONG del lavoro, ma il secondo capitolo ci impone di ragionare prima di quell’evento che ha creato per tutti un filo rosso con la distante Cina: la pandemia da Covid-19 e i conseguenti lockdown. Su questo tema sempre per Sinosfere, ho recensito “Social Contagion” del Collettivo Chuang. Se quel testo aveva preso in esame la centrale Wuhan, nel libro di Gullotta guardiamo la crisi pandemica da Shanghai. Se i Chuang hanno portato avanti la loro ricerca nella stessa primavera del 2020 quando la “0 Covid Policy” era salda, rivendicata, e incontestata, questo capitolo ci racconta il lockdown di Shanghai nella primavera del 2022, quando l’insofferenza della popolazione era divenuta impossibile da nascondere.
In entrambi i testi, la gestione della crisi epidemica diviene “spettacolarizzata” al fine di nascondere dietro il sipario l’inefficienza di una macchina statale che si racconta impeccabile e altra rispetto all’individualismo occidentale. Per la presidenza Xi, la sicurezza dalle minacce esterne prima e dalla pandemia poi diviene “ideologia dominante e strumento politico”. La “guerra infinita” contro il “nemico esterno” e la protezione della vita enucleata nella “0 Covid Policy” divengono occasione di legittimazione ed esaltazione del Partito, non solo nella sua forma amministrativo-esecutiva ma anche e soprattutto nel suo ruolo di guida etica e morale. Questo secondo studio sostiene che “la pandemia di Covid-19, e in particolare la politica Covid Zero adottata dal governo cinese, mette in evidenza come il paradigma dell’immunizzazione e i suoi vari dispositivi siano prodotti attraverso un discorso sulla sicurezza che hanno il risultato di bloccare e confinare l’eterogeneità e la complessità della società” (p. 52).
Eppure, l’epilogo della “0 Covid Policy” è stato ben più sfumato. Il cosiddetto “movimento dei fogli bianchi”, nato sull’onda emotiva dell’ennesima tragedia legata al virus e alla sua gestione, non ha rappresentato una concreta minaccia alla governabilità, ma si è tuttavia rivelato incisivo. Il 24 novembre 2022, dieci abitanti dello Xinjiang sigillati in lockdown sono morti in un incendio mentre i soccorsi latitavano. Da Urumqi (o Wulumuqi) a Pechino, le persone sono scese in strada invocando la fine della “0 Covid Policy”. Dopo quasi tre anni, le restrizioni sono state rapidamente allentate e i lockdown non si sarebbero più riproposti. Nel mio piccolo anche io notai il cambio di passo quando, agli inizi del 2023, ricevetti comunicazione da un’istituzione universitaria cinese che potevamo riprendere “le trattative” per organizzare il mio soggiorno. Che una protesta si riveli efficace non è cosi sorprendente, quello che sorprende, come scrive l’autore nelle conclusioni, del capitolo è che
“A livello ufficiale, il Partito non ha elaborato una versione chiara e convincente di quel che è accaduto, cioè il passaggio repentino da un regime discorsivo e politico a un altro, per giunta opposto in tutto e per tutto. Un’inversione di marcia così plateale non solo relativizza ogni verità che il Partito emana, ma sottolinea il pur umano, troppo umano, errore di governo, sbaglio, fallimento, come lo si voglia chiamare” (p. 80).
Tralasciando l’intermezzo “Via Wulumuqi” di Christopher Connery sulle proteste contro il lockdown di Shanghai, già apparso su Sinosfere l’anno scorso, ci proiettiamo sul terzo studio. Questo affronta il processo di soggettivazione dei giovani appartenenti alle classi medie urbane. Nonostante l’ascensore sociale cinese stia bruscamente rallentando, i giovani istruiti e urbani hanno un ruolo importante nel “sogno cinese” di Xi. Se la Cina continuerà nella sua ascesa, l’ideologia dominante “promette ai giovani un futuro luminoso e positivo, qui non solo possono realizzare i propri sogni individuali di vivere una “buona vita”, ma possono anche contribuire al sogno collettivo del risveglio nazionale” (p. 109).
Chiamati ad esprimere gratitudine per le generazioni precedenti e per il Partito, questi nuovi giovani vengono narrati come detentori di possibilità senza precedenti. Privi di rappresentanza e autonomia politica come i loro genitori, i giovani sono però liberi di viaggiare, spendere, inventare e realizzarsi.
Nell’asimmetria tra sogno e realtà, sembra che i giovani cinesi stiano rispondendo all’appello ideologico e produttivista del partito-Stato e del mercato, sottraendosi dal gioco per “stare sdraiati” (tangping). Chi segue i fatti cinesi, avrà già sentito parlare di questa “gioventù sdraiata” e preso confidenza con i molti neologismi di denuncia della condizione giovanile che popolano i social network cinesi.3) “Movimento degli sdraiati” è un ossimoro, eppure è più pericoloso per l’ascesa cinese di quanto si possa superficialmente credere. Ma cos’è questo “movimento”?
In assenza di una sua manifestazione reale, questo “movimento d’opinione” sembra piuttosto una tensione, un rifiuto, una incompatibilità tra ciò che è stato promesso e la realtà di una competizione economica globale che impone alienazione e produttivismo sfrenato. È il sogno tradito dall’intensificazione dello scontro inter-capitalista.
“Il fenomeno di “stare sdraiati” è infatti in superficie una risposta culturale online negativa rispetto all’energia positiva della cultura dominante; tuttavia, se il fenomeno “stare sdraiati” è analizzato in relazione alle pratiche culturali emergenti tra i giovani, esso si rivela solo come una risposta di rifiuto strategica.” (p. 111)
Quindi il “movimento degli sdraiati” “è un esempio recente della resistenza dei giovani della classe media urbana rispetto ai valori propagandati dalla cultura dominante”. È la strategia del rifiuto al produttivismo e al consumismo, è il rifiuto dell’ideologia dominante di una realizzazione individuale che sia foriera di quella nazionale. “Tangping va quindi interpretato come una strategia di fuga dalla richiesta del mercato e del partito-Stato di massimizzare il consumo e la produzione” (p. 123).
Contro chi si rivolgono gli sdraiati?
“Nonostante il mercato, così come lo Stato, abbiano cercato di trasmettere “energia positiva” e dipingere un futuro promettente ai giovani, questi ultimi sono stanchi della cultura di lavoro “996”, diffusa soprattutto nei luoghi di lavoro delle aziende high-tech cinesi, dove i lavoratori sono tenuti a lavorare dalle 9 di mattina alle 9 di sera, per 6 giorni alla settimana”. (p. 122.)
Se questo “movimento degli sdraiati” ha ricevuto attenzione nel giornalismo e nella sinologia italiana, studi e ricerche approfondite hanno per ora latitato. Partendo da questa considerazione, la conclusione del capitolo sulle “pratiche culturali emergenti fra i giovani a Shanghai” ci fornisce degli esempi concreti e preziosi. L’osservazione partecipante condotta con tre di esperienze: il gruppo teatrale “Grass Stage”, un collettivo di studenti di sinistra e la pratica del “Belonging Space” evidenzia come i giovani, lungi dall’essere un soggetto unitario, mettono in discussione il ruolo cucito per loro dal sogno di Xi. In conclusione, l’autore sostiene che “la fluidità della gioventù odierna supera ed eccede il posizionamento fissato per lei dalla cultura dominante”. (p. 128)
Infine, l’ultimo studio riguarda il già citato tema delle ONG del lavoro (ONGL). Il titolo del capitolo “In Stagnazione” restituisce immediatamente come la dinamica di ascesa sperimentata da questi gruppi nel corso della decade appena trascorsa sia in entrata in crisi. Nell’impossibilità di fare paragoni con le nostre latitudini, mi sembra necessario esporre dapprima un fattore strutturale che ha portato alla formazione di queste ONGL e definire successivamente cosa siano, o siano state.
I lavoratori cinesi non hanno diritto a scegliere liberamente la propria formazione sindacale ma possono iscriversi solamente al “sindacato unico”, ossia l’All-China Federation Trade Union (ACFTU). Questo sindacato nasce con la vocazione di essere quella “cinghia di trasmissione” tra il Partito e le masse lavoratrici teorizzata da Lenin. Tuttavia, la pretesa da parte del Partito di essere ancora oggi “avanguardia” dei lavoratori ha costantemente minato la reale capacità di rappresentanza dell’ACFTU. Infatti, ancora oggi, il sindacato rimane costitutivamente subordinato alla volontà del Partito ed è internamente allineato attraverso una rigida struttura gerarchica ispirata ai principi del “centralismo democratico”. Come affermato da Chen Feng,4) questa dipendenza dell’ACFTU dal Partito lo ha portato ad assumere una “doppia identità istituzionale” nella quale il sindacato si ritrovava a dover sia rappresentare gli interessi dei lavoratori sia a promuovere l’interesse collettivo nazionale. Questa breve descrizione dovrebbe restituire tutta la parzialità del ruolo svolto dal sindacato unico. Anche a partire da questo vuoto, nascono le ONGL.
Queste si sono formate nella metà degli anni ’90 “quando le fondazioni internazionali hanno iniziato a entrare in Cina e il governo cinese ha allentato il controllo sui gruppi della società civile nel contesto della storica Conferenza mondiale dell’ONU sulle donne del 1995” (p. 154). Successivamente nella stagione di Hu Jintao, alcune di queste ONG sono state tollerate come strumento in grado di “aiutare a risolvere le esigenze di assistenza sociale e a colmare le lacune nei servizi, seguendo una strategia che Howell (2015) ha chiamato welfarist incorporation” (p. 155).
Nel 2010, quando lavoratori e lavoratrici erano nel pieno di una stagione conflittuale (collective bargaining by riot),5) queste ONG erano oltre 100 in tutto il paese. Con differenti intensità, queste organizzazioni, nate spesso su iniziativa di accademici, avvocati, giornalisti o ex operai, apportarono un sostegno concreto in termini finanziari e organizzativi alla mobilitazione operaia.
Tuttavia, “quando alcune ONGL sono passate a concentrarsi sulle lotte dei lavoratori non limitandosi più alla protezione legale individuale” queste non sono state più tollerate (p. 156).
Nel riassorbimento complessivo della stagione conflittuale operaia databile tra il 2014 e il 2016,6) queste ONGL sono diventate l’obiettivo di una dura campagna repressiva da parte dell’amministrazione Xi. Non sorprenderà il lettore sapere che molte di queste sono state chiuse in virtù di finanziamenti provenienti da paesi stranieri. Le ONGL da soggetti privati intermedi utili a fornire servizi erano diventate attori destabilizzanti dell’armonia e della stabilità sociale al soldo delle potenze straniere.
“Il risultato è che le ONGL sono state divise in due filoni: organizzazioni orientate al servizio e organizzazioni orientate al movimento” (p. 156).
Le prime si sono limitate a fornire servizi diventando più simili a centri culturali e formativi. Le seconde, depotenziate del loro portato conflittuale, sono state prevalentemente smembrate o costrette a riconfigurarsi come “organizzazione orientate al servizio”. La storia della OGNL “Tianxia” osservata da Gullotta può rientrare in quanto appena descritto.
“Mentre diverse ONGL basate sulla comunità che sono sopravvissute alla repressione del 2015 nella regione del delta del Fiume delle Perle hanno faticato a ottenere finanziamenti dovendo così chiudere o ridurre al lumicino le attività, Tianxia ha avuto un sostegno finanziario e ufficiale stabile nell’ultimo decennio. (…) Tuttavia, Tianxia è presto entrata in una fase di stagnazione durante la quale si è distaccata dalle preoccupazioni dei lavoratori che vivevano a Xujiang e si è concentrata solo sui servizi individualizzati per gruppi selezionati” (pp. 160-161).
L’aspetto più virtuoso di questo studio sulle ONGL penso risieda nella capacità dei due autori di connettere il piano più ampio della repressione a livello nazionale con la dimensione locale di Tianxia, mostrando come l’ascesa, intensa in termini di riconoscimento, abbia condotto ad una “stagnazione” delle stesse organizzazioni. A tal proposito, mi permetto di aggiungere che tale “stagnazione” sia legata ad una vera e propria crisi d’identità. La transizione “dalla lotta al servizio” non ha solo cambiato la natura di queste ONGL ma ne ha minato i fondamenti organizzativi e la relazione con i lavoratori per i quali erano nate.
Da un lato “il passaggio di Tianxia da piattaforma per l’emancipazione dei lavoratori alla fornitura di servizi che non mettono in discussione lo status quo è avvenuto contemporaneamente all’ascesa dell’organizzazione” (p. 166). Dall’altro la “crisi d’identità” sta nel fatto che la “burocratizzazione interna è diventata sempre più evidente dopo il 2015: il lavoro quotidiano è diventato ripetitivo, si è diventati responsabili verso la fondazione finanziatrice e non verso i lavoratori, e in più le prospettive di mobilità interna sono diventate minime” (p. 166).
La mutazione di queste ONGL sopravvissute, cambiandone natura e obiettivi, ha innescato una crisi organizzativa. Le stesse dinamiche gerarchiche e non democratiche che i lavoratori contestavano sul posto di lavoro sono diventate la forma organizzativa della ONGL che si proponeva di “organizzarli”.
Come concludono gli autori: “L’obiettivo dovrebbe essere l’emancipazione collettiva e non la fornitura di servizi individuali. Quando l’assistenza legale e il supporto educativo diventano un fine in sé stesso, essi oscurano le contraddizioni e i conflitti presenti nelle relazioni sociali dei subalterni, rendendo così invisibile la loro soggettività”.
In conclusione, credo che la speranza dell’autore sia stata ben riposta.7) Oltre l’etnografia e la sinologia, questo lavoro risulterà utile a tutti coloro che si muovono nelle magmatiche scienze sociali. Citando Susan Strange,8) nel reciproco trascurarsi tra sinologia e scienze sociali in Italia, il libro di Gullotta getta i piloni di un ponte. Una piccola opera la cui realizzazione si dimostra sempre più urgente in un presente polarizzante e bellicista.
Dario Di Conzo è dottorando in Scienze Politiche e Sociali presso la Scuola Normale Superiore. Si occupa di relazioni industriali e politiche economiche della Cina contemporanea. Attualmente insegna come docente a contratto il corso di “riforme economiche della Cina contemporanea” presso l’Università di Napoli L’Orientale. Questa recensione è stata pubblicata anche dal sito Sinosfere.