Dopo il fallimento dell’Europa neoliberista, la via d’uscita dalla crisi richiede cambiamenti profondi. Serve una politica fiscale, industriale e del lavoro comune, che metta al centro la priorità dell’occupazione. Ma la può imporre soltanto un nuovo blocco sociale, con interessi opposti alle élite, e con la forza politica di sostituire le classi dirigenti
La malattia di cui soffre l’Europa potrebbe essere definita come una malattia genetica, essa, infatti, discende dal modo stesso in cui è stata costituita l’Unione Europea: dall’assetto istituzionale con la separazione tra politiche monetarie e politiche fiscali alla costituzione di una Banca centrale europea irresponsabile verso i cittadini e con il solo compito di combattere l’inflazione, sino alla strategia di crescita che fu allora definita.
Bisogna risalire al tanto celebrato, anche a sinistra, piano Delors del 1993; il piano infatti era un piano squisitamente liberista nel suo impianto concettuale. Il progetto era così definito: privilegiare gli investimenti infrastrutturali e tecnologici contro i consumi, ciò avrebbe accresciuto la competitività del sistema grazie inoltre alla costruzione, con adeguati patti sociali, di un differenziale tra dinamica della produttività e livello dei salari per garantire un’adeguata remunerazione degli investimenti. Lo scopo era la creazione un sistema produttivo europeo integrato, in grado quindi di partecipare alla competizione globale. Si doveva inoltre garantire la stabilità macroeconomica con l’introduzione dell’Euro e quindi tassi di cambio stabili. Ciò avrebbe provocato un’espansione economica robusta con conseguenti rischi inflattivi da tenere sotto controllo sia attraverso il pilotaggio della dinamica salariale che la riduzione del deficit dei bilanci pubblici.
In questo quadro i livelli occupazionali non rappresentavano più un vincolo delle politiche economiche ma un loro risultato indiretto, perché, come si diceva allora, la crescita economica avrebbe fatto come la marea che solleva tutte le barche, indipendentemente dalla loro posizione. La stabilità sociale e un’equa distribuzione delle risorse, sia geograficamente sia tra le classi sociali, dipendeva in ultima istanza dal successo competitivo dell’Europa, delle sue imprese e, si aggiunse, dei suoi territori; l’Europa sociale poggiava su queste fragili basi.
La creazione di un sistema produttivo europeo doveva essere accompagnata da politiche di liberalizzazione dei mercati finanziari e della circolazione dei capitali d’investimento al fine di consentire una vasta realizzazione di fusioni e acquisizioni su scala europea. Si trattava di realizzare, infatti, dimensioni industriali ritenute efficienti nella lotta competitiva internazionale puntando a quelle politiche che combinano una crescita della domanda aggregata attraverso un mix di tagli alle tasse, riduzione degli interessi e/o spesa pubblica che accelerassero la realizzazione di una strategia di forti investimenti aziendali orientati all’alta tecnologia e in grado di garantire alti profitti. La scelta della tecnologia di punta come unica prospettiva della Commissione arrivò a tal punto che nel 1993 i governi tedesco e italiano dovettero difendere il ruolo della manifattura che era stata esclusa dai programmi di finanziamento di ricerca e sviluppo dell’Unione.
Aggiungasi che la retorica ufficiale fu costruita sulla contrapposizione tra politiche dirigiste (top down) e politiche nate “dal basso” (bottom up) dall’iniziativa degli “attori economici e sociali”. L’iniziativa dal basso non poteva che premiare gli attori più forti e quindi più orientati a scelte strategiche omogenee a quelle dell’ideologia ufficiale. Si determinò quindi un circuito chiuso tra i gruppi finanziari e industriali più forti e la Commissione, istituzionalizzato attraverso le commissioni di studio che preparano i “libri verdi” cioè il quadro delle possibili iniziative strategiche. Si è così progressivamente costituito nell’Unione Europea un complesso industriale–finanziario con rapporti di osmosi continua con la Commissione. Processo analogo a quello avvenuto a livello nazionale nella maggior parte dei paesi europei come i casi Schröder e Blair hanno reso palese.
La consistenza teorica di tale impianto era già stata messa in discussione in campo accademico dalla fine degli anni settanta, ad opera di Minsky, che la qualificò come una forma bastarda di keynesismo. Oggi le “dure repliche della storia” ci dicono che quella strada era una strada fallimentare producendo i risultati previsti da Minsky che alla metà degli anni ottanta scriveva: “l’enfasi sugli investimenti e la “crescita economica” piuttosto che sull’occupazione come obiettivo politico è un errore. Una economia basata sulla piena occupazione è vincolata all’espansione, mentre un economia che punta all’accelerazione della crescita attraverso strumenti quali investimenti privati ad alta intensità di capitale non solo può non crescere, ma può essere vieppiù ingiusta nella distribuzione del reddito, inefficiente nella scelta delle tecniche, e instabile nella sua realizzazione complessiva”.
Originò così, lungo queste linee guida, la grande ristrutturazione dell’industria europea. Il risultato è stato un gigantesco processo di concentrazione capitalistico mediato e guidato da logiche finanziarie. Se si guarda ai principali settori economici, un pugno di imprese controlla quasi tutta l’attività economica di quel settore. Il processo di concentrazione si è accompagnato a una frammentazione delle catene produttive attraverso le politiche di articolazione in vari livelli di subfornitura. Contemporaneamente, la politica di allargamento sino all’attuale Europa a 27 ha prodotto, in prima istanza, un doppio mercato del lavoro.
Il risultato complessivo per il mondo del lavoro dipendente è lo sbriciolamento progressivo della sua unità basata su contratti nazionali di categoria. Si è passati dagli accordi sociali, come quello italiano del 1993, tesi a controllare le dinamiche aggregate nazionali dei salari e a definire un quadro di regole unitario, alle derive tedesche verso contratti aziendali sempre più significativi, fino all’accordo italiano del 28 giugno. Accordo, significativamente assunto a modello dalla Bce, che punta alla costituzione di un quadro di relazioni industriali, se ancora si possono chiamare tali data la loro unilateralità, in cui ogni azienda deve poter definire il suo specifico profilo competitivo avendo come pietra di paragone il mondo intero. La competizione si articola su due registri, gli Stati e le imprese; due registri che non sono necessariamente convergenti.
Lo sbriciolamento è implicito in quelle scelte politiche e diventa inevitabile se non si costruisce un nuovo livello di unificazione del mondo del lavoro che sia congruo con il nuovo quadro europeo.
Ma per meglio comprendere le ultime fasi occorre aggiungere che il quadro prima tratteggiato dell’Unione Europea, in particolar modo il suo orientamento alla competizione internazionale ha trovato una coerente sistemazione nel perseguimento di politiche neomercantili, articolate principalmente su scala nazionale. Si è avuta quindi contemporaneamente un’enfasi e un orientamento pratico alla costruzione di un sistema produttivo europeo, mentre i singoli stati si distribuivano, secondo le loro capacità e orientamenti, lungo una scala di modeste o assenti politiche di esportazione intra ed extraeuropee sino a vere e proprie “macchine da guerra”, come la Germania. Le politiche neomercantili, come quella tedesca e nel suo piccolo, quella tradizionale italiana, si basano su una costante deflazione salariale interna; la Germania infatti ha avuto tra il 2000 e il 2009 una deflazione salariale costante, con l’eccezione del 2003. Le politiche neomercantili inoltre hanno la caratteristica di essere a somma zero: se uno vince l’altro perde, e perde esattamente della stessa quota che l’altro ha guadagnato; si traducono quindi nell’esportazione di quote di disoccupazione verso i paesi obiettivo delle esportazioni. Stupiscono quindi le esortazioni di certa stampa e commentatori a fare tutti come la Germania, perché è impossibile. I rapporti interni all’Europa sono stati quindi caratterizzati da forti squilibri nella bilancia commerciale; squilibri che, dato l’assetto istituzionale dell’Europa, risultano squilibri tra stati, nel mentre il sistema produttivo veniva integrato grazie alla assoluta libertà di movimento dei capitali e l’assenza di una politica del lavoro europea che definisse degli standard effettivi. Tali squilibri hanno riguardato anche la produttività e la competitività, il che si è progressivamente tradotto in un aumento della distanza tra i costi del lavoro unitari, particolarmente forte dal 1999; tra Italia e Germania la differenza è passata da meno di 5 a 20 punti percentuali. La Germania, infatti, è calata costantemente tra il 1970 e il 2007 per poi avere una risalita, mentre l’Italia è salita costantemente.
Lo squilibrio interno europeo data quindi da lungo tempo, ma sino a quando il meccanismo ha funzionato lungo un percorso di crescita non si sono prodotte rotture politiche rilevanti; nel momento in cui la crisi ha reso visibili i meccanismi impliciti, prima scarsamente visibili, allora gli squilibri interni all’Unione Europea sono divenuti prioritari.
La grande ristrutturazione aveva già prodotto meno occupazione per il consolidamento di interi settori, attraverso le fusioni e le acquisizioni di aziende; un’occupazione meno stabile, data la frammentazione della catena produttiva e le politiche nazionali ed europee tese alla flessibilizzazione del lavoro; un’occupazione di minor qualità della vita lavorativa, grazie alla pressione costante al ribasso determinata da tutti gli altri fattori citati; un aumento dell’insalubrità dei luoghi di lavoro dovuta all’intensificazione della prestazione lavorativa; una deflazione salariale generalizzata con il trasferimento di quote significative del PIL ai profitti e alle rendite e infine una progressiva restrizione dei diritti collettivi per via pattizia o, come in Italia, anche per via legislativa come dimostra la vicenda dell’articolo 8.
La crisi ha accentuato queste dinamiche innescando sia questioni di rivendicazioni nazionali, come nei casi dell’industria alimentare (Italia, Francia) e automobilistica (Germania, Francia), sia tra vari stabilimenti di uno stesso gruppo come hanno reso evidente le pratiche delle aste alla rovescia (Zanussi), aste cioè nelle quali ogni stabilimento (manager e lavoratori insieme) giocano al ribasso sulle condizioni di lavoro contro gli altri stabilimenti per mantenere il posto di lavoro.
Il movimento sindacale europeo di fronte a tutto ciò non è riuscito a dare inizio a un processo di unificazione del mondo del lavoro su scala europea; al contrario sono ormai prevalenti in tutta europea pratiche aziendaliste/corporative e di utilizzo della massa di precari come stabilizzatori automatici del ciclo delle commesse. Lo sbriciolamento ha insomma prodotto un arroccamento corporativo aziendalista.
La situazione italiana di distingueva come ancora aperta a esiti più dinamici, grazie alla Fiom e alla non accettazione formale del nuovo quadro da parte della Cgil; la firma dell’accordo del 28 giugno da parte della Cgil e la rottura tra Fiat e Confindustria, e l’articolo 8 voluto dal ministro Sacconi, ipotecano pesantemente anche la situazione italiana. La Fiat ha infatti chiarito conclusivamente che si può fare a meno della Confindustria e di ogni forma di associazionismo che viene sostituito da una logica lobbistica.
A livello nazionale l’alternanza delle forze politiche nel governo dei singoli paesi non corrisponde più a una reale alternanza nella tutela degli interessi del complesso finanziale-industriale ma nelle forme di svolgimento di tale tutela. Quegli interessi sono, infatti, prevalenti su tutti gli altri, ciò che può cambiare è la natura della mediazione con altri interessi.
Questa dominanza di fatto di un insieme di poteri irresponsabili rispetto ai cittadini, cioè privi di ogni legittimazione democratica, ha determinato una progressiva crisi di legittimazione dell’intera costruzione europea presso strati sempre più ampi dei cittadini europei.
La pressione autoritaria che ne scaturisce si distribuisce lungo tutti i rami della società politica, istituzionale e sociale europea. La competizione in una situazione di stagnazione o recessione porta alla dichiarazione di situazioni di emergenza e quindi alla centralizzazione e tecnicizzazione delle decisioni politiche; il processo non si ferma alle porte del mondo politico e istituzionale ma tende a pervadere tutte le istituzioni sociali, sindacati e partiti compresi.
De Grauwe, il noto economista di Lovanio, ha spiegato, in un recente saggio, che un paese che entra in un’unione monetaria vede il suo debito pubblico denominato in una nuova moneta di cui non ha più il controllo; ciò ha conseguenze rilevanti, aumentando la fragilità finanziaria di quel paese e arrivando sino ad impedire l’utilizzo degli stabilizzatori automatici in una recessione. È, infatti, evidente che nel momento in cui un paese perde competitività e non può più svalutare la moneta, di cui non ha più il controllo, allora deve ricorrere a una svalutazione interna dei salari e dei prezzi e per realizzarla deve ricorrere a misure di bilancio restrittive innescando una recessione e ulteriori deficit di bilancio, come sta dimostrando il caso greco. Se a questo si aggiunge che, come sottolineato da molti analisti, il debito sovrano europeo non è il risultato casuale di tanti problemi nazionali ma il risultato sistemico dell’attuale assetto europeo e che viceversa non è possibile isolare il caso di un paese dalle conseguenze sistemiche che esso produce sull’insieme dell’Unione Europea, allora si possono cominciare a trarre alcune conclusioni dalla nostra analisi.
La prima conclusione è che non esiste alcuna via di uscita da questa crisi, intendendo da ora in avanti sia la crisi economica sia quella della costruzione europea, senza un cambiamento di paradigma. Per essere ancora più precisi non crediamo che esistano più margini riformistici: o passa il modello che potremmo chiamare per semplicità della lettera segreta di Draghi e Trichet al governo italiano, con il conseguente disastro sociale ”alla greca”, oppure tutto deve essere messo in discussione, costruendo un’Europa diversa.
La seconda conclusione è che non crediamo che oggi nei paesi dell’Unione europea esista un’alternativa disponibile tra le forze politiche che presumibilmente si possono alternare al governo, a prescindere da come si autoqualificano. Essa non esiste in primo luogo perché per essere pensata bisogna che una forza politica si consideri in rappresentanza degli interessi sociali oggi emarginati, a partire dal mondo del lavoro, cosa che non è più vera nemmeno per quelle che si considerano ancora socialiste. In secondo luogo perché per costruire una tale alternativa bisogna contestualmente costruire un blocco sociale che si riconosca in essa, che ne sia protagonista sin dalla sua elaborazione, cosa che oggi non è. I movimenti monotematici che sono certamente basati su un protagonismo diffuso e democratico, senza nulla togliere alla giustezza e rilevanza dei loro obiettivi, come quello sull’acqua, non possono diffondere per “contagio” questa istanza democratica; essa richiede un’assunzione senza sotterfugi da parte dei grandi centri tuttora esistenti di organizzazione sociale, come i sindacati, il che, con qualche eccezione, non è. Infine perché nessuna forza politica si è, sino ad ora, assunta il compito di pensare l’Europa come un unità politica e istituzionale che fonda la produzione della propria ricchezza sulle esigenze sociali dei propri cittadini e sulla piena utilizzazione delle loro risorse lavorative e di ingegno.
Noi pensiamo quindi che oggi sia necessario costruire insieme un’alternativa sociale e un’alternativa politica a queste classi dirigenti. Costruire insieme le due f cce di un’alternativa richiede un’immersione totale nella società civile, non perché essa sia per principio migliore, come idealisticamente si sostiene, ma perché lì si costruisce un nuovo blocco sociale, con un lavoro di lunga lena di esercizio del dialogo democratico, della mobilitazione delle risorse e delle persone, con la costruzione di momenti organizzati, ecc. Non partendo noi, come i nostri bisnonni, da zero, sarebbe utile difendere da ogni deriva burocratica e di inconcludenza pratica il patrimonio di organizzazioni sociali ereditato, a partire dai sindacati; questo è un terreno di lotta immediata in Italia e in Europa.
Nel dibattito su “la rotta d’Europa” sono emerse le linee possibili di un’alternativa siffatta: in primo luogo mettendo al centro della produzione della ricchezza sociale l’effettivo soddisfacimento delle esigenze vitali di tutti: dal lavoro all’uso di un abitazione dignitosa. In secondo luogo rimettendo, come vincolo delle politiche pubbliche, la piena occupazione, un’occupazione stabile, in ambienti di lavoro salubri, basata sui diritti individuali e collettivi e retribuita in modo adeguato ad una vita dignitosa. In terzo luogo utilizzando le risorse naturali come beni di tutti che vanno preservati per le nuove generazioni.
Un’Europa siffatta ha bisogno di una politica fiscale, di una politica industriale e di una politica del lavoro comuni, che puntino alla convergenza degli standard di vita, dei diritti e delle libertà civili. Un’Europa così concepita non ha bisogno di una competizione interna e internazionale distruttiva, né tantomeno di esportare la guerra, ma di cooperazione e collaborazione, a partire dal bacino del Mediterraneo.