Per un’applicazione più “rigorosa” delle vecchie regole la Sinistra è inutile. Serve invece se c’è del nuovo da tentare, per rilanciare in Europa una crescita ricca di equità e di democrazia sociale
1. Quella che stiamo vivendo da 3-4 anni è una fase di transizione storica caratterizzata dalla grande crisi globale esplosa nel 2007-2008, tuttora in corso e di cui ancora non si vede quale sarà la via d’uscita. Come in altre grandi crisi, essa riguarda non solo le modalità assunte dal sistema economico-finanziario – che nel trascorso trentennio è stato caratterizzato dall’affermarsi del neoliberismo e della globalizzazione -, ma anche i valori culturali, sociali e politici che in questo periodo si sono affermati e il senso comune formato dalla diffusione di quei valori nell’opinione pubblica.
L’Unione europea e la Sinistra sarebbero, potenzialmente, in una condizione ideale per dare un contributo positivo al superamento della crisi, ma – almeno finora – ciò non sta accadendo; anzi, per certi versi, si sta verificando il contrario.
2. Nonostante la crisi appaia, per il modo in cui si manifesta, di natura essenzialmente finanziaria, le sue cause strutturali vanno individuate in contraddizioni reali che continuano ad essere sottovalutate o negate dalle visioni economiche e politiche ancora dominanti. Anche nell’opinione pubblica si avvertono segnali di smarrimento e insofferenza, ma – a conferma del complessivo disorientamento dei tempi – non s’intravedono le capacità di una loro canalizzazione politica in senso progressivo.
Tra i principali motivi economici della crisi globale vanno schematicamente ricordati: il peggioramento tendenziale della distribuzione del reddito iniziato negli anni ’80 nei paesi più sviluppati e il conseguente squilibrio tra la sostenuta dinamica delle capacità d’offerta e l’inadeguatezza della domanda, determinata anche dal contenimento della spesa pubblica (in particolare di quella sociale); la finanziarizzazione dell’economia, espressione significativa dell’autonomizzazione della logica del profitto rispetto all’economia reale e ai rapporti sociali e, allo stesso tempo, strumento per sopperire in modo effimero (le “bolle”) alla carenza strutturale della domanda; l’accresciuta asimmetria nei rapporti tra mercati e istituzioni, con l’accentuata riduzione del ruolo pubblico di regolamentazione dei mercati e di compensazione della sua intrinseca instabilità; il ruolo esercitato dalle visioni economiche dominanti che, proprio mentre l’instabilità era accresciuta dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione, teorizzavano che potesse essere neutralizzata dal libero dispiegarsi della razionalità dei mercati.
3. Queste e altre motivazioni della crisi globale non erano e non sono presenti con particolare intensità nell’area dei paesi dell’euro; tuttavia, da molti mesi, gli effetti più eclatanti della crisi si stanno avvertendo proprio in Europa; ciò dipende dal fatto che le difficoltà economiche globali si stanno intrecciando negativamente con le contraddizioni del processo unitario europeo.
Una contraddizione di fondo risiede nel fatto che la costruzione dell’UE – che pure implica una rilevante dimensione politico-istituzionale – negli ultimi tre decenni sia stata guidata dalla visione neoliberista che considera le istituzioni un ostacolo al funzionamento dei mercati; così, a livello comunitario, si è puntato essenzialmente sul mercato e sulla moneta, trascurando il necessario ruolo complementare delle istituzioni e delle politiche. Ciò ha esaltato gli effetti della crisi globale nel nostro continente. Si aggiunga che, mentre nei paesi anglosassoni – dove pure il neoliberismo ha le sue radici più profonde – non sono mai mancate applicazioni pragmatiche di quella visione (si pensi alla FED che, diversamente dalla BCE, ha tra le sue finalità anche la crescita), negli ultimi anni il cosiddetto modello di economia sociale di mercato, sempre richiamato in Europa, ha lasciato spazio ad applicazioni anche molto convenzionali della pura logica di mercato.
Un importante limite del progetto europeo è che continua ad essere condizionato da idiosincrasie nazionali alcune delle quali sono incompatibili anche logicamente con un progetto unitario.
Particolarmente inconsistente è la pretesa di estendere il modello economico tedesco, guidato dalle esportazioni e dal surplus commerciale, ad un intero continente che diventerebbe la maggiore economia mondiale.
Se si procedesse in tal senso, i tanto criticati squilibri economici internazionali già esistenti (delle bilance commerciali, dei flussi finanziari, delle riserve valutarie, delle situazioni debitorie, ecc.) che tanto faticosamente vengono affrontati nei vari consessi internazionali, sarebbero aggravati e così pure le cause della crisi globale.
Continuare a guardare all’Europa come il risultato dell’estensione su base continentale di esperienze nazionali, a parte la miopia politica, è un tipico esempio di fallacia di composizione.
Le perduranti preoccupazioni per l’inflazione nel bel mezzo della più grave crisi di stagnazione-recessione degli ultimi ottant’anni e l’approccio semplicisticamente “rigoroso” alla politica di bilancio continuano a favorire il prevalere degli orientamenti controproducenti che hanno guidato il processo di (non) unificazione europea.
Il timore dell’inflazione risente ancora di traumatiche esperienze nazionali del passato – come la grande svalorizzazione del marco nella Repubblica di Weimar che, tuttavia, a distanza di quasi un secolo, dovrebbe essere rielaborata anche in rapporto alle nuove e del tutto diverse condizioni e problematiche economiche e politiche.
La più vicina esperienza inflazionistica dei recenti anni ’70 fu invece il risultato della lotta economica e politica per la redistribuzione del reddito e della ricchezza – sia tra i paesi sviluppati e i paesi produttori di materie prime sia, nelle economie più avanzate, tra imprese e lavoratori – che erano fortemente cresciuti dalla fine della guerra. L’aumento dei prezzi da parte dei produttori dei paesi sviluppati – che contribuì anche al contestuale calo della crescita e dell’occupazione (stagflazione) – servì ad invertire il trend dei miglioramenti equitativi e dei progressi politico-sociali che aveva accompagnato e sorretto la grande crescita economica e civile della “età dell’oro” dei paesi occidentali.
Diversamente da quelle passate esperienze inflazionistiche, oggi – dopo l’ultimo trentennio neoliberista sfociato nell’attuale crisi globale – non c’è né una carenza della capacità d’offerta rispetto alla domanda come nel primo dopoguerra (anzi è il contrario) né c’è un’elevata crescita di ricchezza da redistribuire (per quanto esistano potenzialità produttive inespresse). Oggi dobbiamo invece fare i conti con gli effetti, negativi anche per la crescita economica, delle sperequazioni reddituali, dei limiti dei mercati lasciati a se stessi e di un’instabilità tanto strutturalmente accresciuta (dalla globalizzazione, dalla finanziarizzazione, dalla precarietà del lavoro e dei redditi) quanto ideologicamente negata (in base alla pretesa razionalità attribuita ai mercati) e conseguentemente accentuata dal contenimento del welfare state.
Dal punto di vista analitico, il perdurante “rigorismo” nelle politiche di bilancio richiesto dall’UE tradisce anche una certa confusione tra la Macroeconomia (il cui approccio analitico non è ancora ben digerito dalla visione liberista) e la Ragioneria. Quest’ultima si applica positivamente ai bilanci delle singole imprese. La prima, invece ha regole, strumenti d’analisi e finalità operative diverse, poiché gli equilibri macroeconomici non dipendono solo dalla semplice giustapposizione dell’azione dei tanti singoli operatori di mercato, ma anche dalla loro interazione (il tutto non è semplicemente la somma delle parti); in più, gli equilibri macroeconomici dipendono dal rapporto dei mercati con le istituzioni – cioè con enti che hanno motivazioni e modalità d’intervento anche molto diverse da quelle degli operatori privati. Gli equilibri e le dinamiche macroeconomiche non possono dunque essere valutati, ad esempio, trasponendo al settore pubblico il ruolo che il pareggio o l’attivo di bilancio hanno per una singola azienda; quando ciò avviene si verifica un’altra manifestazione di fallacia di composizione, sospinta, in questo caso, da una ideologica, ingenua infatuazione per regole aziendali indebitamente estese all’intero sistema economico nel quale le aziende, lo stesso mercato e le relative regole, costituiscono solo una parte della realtà economica.
Se si passa all’analisi dei fatti e si guarda alle recenti vicende europee, più che il caso greco è emblematico quello irlandese che ha mostrato come i problemi per l’Euro e per l’UE non derivano tanto dall’indisciplina dei bilanci pubblici (nel 2007 il debito pubblico irlandese era solo del 12%) ma dal settore privato, in particolare da quello finanziario. Altrettanto si può dire per la Spagna il cui debito pubblico nel 2007 era solo del 27%, ma ciò non ha impedito che oggi si trovi particolarmente colpita dalla crisi e più di altri paesi esposta alla speculazione internazionale. Del resto, anche il debito pubblico negli Usa è cresciuto vertiginosamente negli ultimi anni fino a superare quello medio europeo che, a sua volta, è molto meno della metà di quello giapponese che è elevatissimo da tempo; eppure, come si accennava prima, è in Europa che la crisi assume i caratteri più destabilizzanti.
D’altra parte, il forte peggioramento dei bilanci pubblici intervenuto negli ultimi anni è il risultato dei massicci interventi di ripianamento dei debiti privati che dopo il mancato salvataggio della Lehman-Brothers furono chiesti a viva voce anche da molti protagonisti e sostenitori del mercato che oggi indicano nell’indebitamento degli stati il primo ostacolo da rimuovere per consentire ai mercati di riportarci fuori dalla crisi.
Dunque è ancora più paradossale che con il nuovo Patto di Stabilità europeo si chieda maggior rigore ai bilanci pubblici senza che vincoli e sanzioni più efficaci siano posti ai comportamenti degli operatori privati e dei mercati, specialmente di quelli finanziari.
Questo approccio asimmetrico continuerà ad esercitare effetti negativi: da un lato, riducendo ulteriormente gli stimoli alla crescita dell’economia reale e all’occupazione; d’alto lato, non attenuando i motivi d’instabilità presenti nei mercati internazionali, specialmente in quelli finanziari dove la creazione dei “derivati” è immediatamente ripartita (già nella primavera del 2009 erano tornati a valori superiori al 2007) dando luogo ad una nuova immensa “bolla” (stimata pari ad oltre 40 volte il Pil USA) che assorbe la creazione di liquidità delle banche centrali a discapito delle necessità di finanziamento del settore reale e alimenta la speculazione.
Per fare un altro esempio della logica ideologicamente erronea e controproducente che continua a dominare nell’Unione, dare aiuti all’Irlanda senza che in quel paese vengano equiparate le aliquote d’imposta sui profitti al livello comunitario significa chiedere agli altri paesi europei di sostenere la concorrenza sleale irlandese fondata sul dumping fiscale a favore dei profitti realizzati in quel paese da imprenditori venuti anche da fuori Europa.
4. In realtà, quella che viene definita come la crisi dell’Euro sta evidenziando la ben nota difficoltà di creare un unico sistema economico che, tuttavia, di unitario ha solo la moneta e la politica monetaria e non anche le dinamiche strutturali e la politica di bilancio.
La creazione della moneta unica, e la conseguente abolizione degli aggiustamenti valutari, richiedeva che fosse accompagnata dalla convergenza delle economie; ma in questa direzione si è fatto veramente poco. Anzi, l’affrettato allargamento dell’UE a sistemi economici molto disomogenei, realizzato senza disporre degli strumenti per favorirne la convergenza, ha reso il progetto europeo più difficile.
La crisi globale ha accentuato queste difficoltà. L’impossibilità di aggiustare le perduranti e crescenti differenze strutturali tra i sistemi economici nazionali aderenti all’UE allargata mediante variazioni dei tassi di cambio spinge – nella visione di politica economica ancora dominante – a che l’aggiustamento avvenga riducendo i prezzi e/o i redditi dei paesi con disavanzi con l’estero.
Ma questo tipo di aggiustamento è più “doloroso” in termini di minore crescita e occupazione, generando spinte deflazionistiche che si estendono anche ai paesi in minore difficoltà.
La deflazione amplifica i debiti, a cominciare da quelli dei privati e, in particolare, delle banche; per evitare che queste ultime falliscano, si ricorre all’intervento dei governi; ma in tal modo si appesantiscono i bilanci pubblici di cui poi si chiede il risanamento da ottenersi mediante gli immancabili sacrifici sociali.
Anche per sostenere la moneta unica, occorrono politiche capaci di favorire effettivamente la convergenza reale delle economie nazionali. A tal fine è necessario prendere atto che la sola concorrenza all’interno del mercato unico non ha favorito (non poteva farlo) la convergenza delle economie nazionali, ma l’ha resa più difficile, ed è proprio l’accresciuta disomogeneità interna che ha accentuato gli effetti della crisi globale sull’Unione europea.
Occorre dunque potenziare l’azione di coordinamento e integrazione. Il passaggio da sistemi nazionali concorrenti ad un’economia di dimensioni continentali – che diventerebbe la principale al mondo – produrrebbe due risultati rilevanti: in primo luogo, allenterebbe i vincoli esteri alle politiche espansive e di riequilibrio interne che potrebbero essere praticate riducendo i rischi di aumentare oltremodo le importazioni e squilibrare la bilancia dei pagamenti; in secondo luogo, favorirebbe significativamente la capacità di contrasto alle manovre speculative sui mercati internazionali che attualmente rappresentano un serio pericolo per la costruzione europea.
Le politiche di rilancio della crescita dovrebbero essere finanziate anche tramite l’emissione di eurobond ad opera di un’agenzia comunitaria dotata di patrimonio adeguato; essa, più in generale, dovrebbe progressivamente assumere compiti funzionali alla definizione di una politica comune anche in campo fiscale. In questa prospettiva – che proprio la crisi globale non consente sia ulteriormente elusa, pena l’inevitabile venir meno del progetto europeo già nel breve periodo – anche la gestione dei debiti pubblici nazionali sarebbe favorita. L’impiego anche a tal fine degli eurobond e la dichiarata disponibilità ad interventi sul mercato secondario dei titoli pubblici nazionali – misure che in entrambi i casi dovrebbero essere coerenti ad un disegno di politica economica comunitaria concordato e rispettato – eliminerebbe quella situazione di ingiustificata fragilità dell’Unione Europea determinata da comportamenti più autolesionisti che rigorosi.
La creazione di eurobond con queste funzioni– come da ultimo è stata sostenuta anche da Prodi – viene curiosamente criticata dal nuovo “partito” di coloro che si preoccupano che i tedeschi possano rimetterci. Ancora una volta c’è di mezzo una strana interpretazione del “rigore” come viene richiesto nelle timide e tardive misure comunitarie adottate per difendere l’Unione Europea dalla crisi e dai movimenti speculativi che la caratterizzano. A tale riguardo può essere utile notare che la partecipazione al finanziamento degli interventi dell’UE a favore dei paesi in difficoltà avviene secondo quote corrispondenti al PIL e alla partecipazione al capital della BCE, che sono: il 28% per la Germania, il 21% per la Francia e il 17,9% per l’Italia.
Il prestito ai paesi in difficoltà avviene ad un medesimo tasso corrisposto dal paese debitore a tutti i paesi creditori; tuttavia, questi ultimi, per erogare il prestito, raccolgono liquidità sui mercati a tassi diversi, che sono più alti per l’Italia e meno per la Germania (il famoso spread che sta oscillando intorno al 3% ed è arrivato anche vicino al 4%). Dunque la Germania ha un profitto superiore dall’operazione.
D’altra parte, il sistema bancario tedesco ha un’esposizione nei paesi in difficoltà ben maggiore di quella delle banche italiane (570 miliardi di euro contro 80 all’inizio dell’estate).
Dunque, quando vengono decisi interventi a sostegno dei bilanci pubblici dei paesi in difficoltà, lo si fa perché essi possano assicurare la solvibilità dei loro operatori privati (soprattutto banche) che sono debitori verso il sistema bancario estero (soprattutto tedesco). In definitiva, il bilancio pubblico tedesco trae particolare profitto dal soccorso finanziario a favore dei paesi in difficoltà come la Grecia: sia perché guadagna maggiormente sul prestito che concede sia perché evita di dover soccorrere le proprie banche che sono le destinatarie d’ultima istanza del soccorso operato dall’Unione.
Ma questi sono “particolari” poiché la creazione dell’euro – alla cui sopravvivenza è normale che la Germania sia chiamata a contribuire in ragione del suo peso economico – è stata e continua ad essere una scelta particolarmente vantaggiosa per il modello economico tedesco fondato sulle esportazioni, le quali sono state evidentemente favorite dalla creazione di un mercato e di una moneta unitari. Naturalmente, vale sempre il principio che, non potendo l’intera economia europea avere un elevato e persistente surplus commerciale – specialmente se c’è già la Cina in questa condizione, con tutti gli squilibri che provoca per l’economia mondiale -, se nell’area dell’euro un paese ha una bilancia dei pagamenti in attivo, è ben comprensibile che qualcun altro l’abbia in passivo. D’altra parte, uno squilibrio commerciale elevato e persistente tra diverse aree economiche implica problemi e responsabilità per entrambe le parti.
La crescita dell’intera Europa – e della Germania – e il contributo che ne può derivare per il superamento della crisi globale passano dunque necessariamente per un particolare aumento della crescita nei territori meno sviluppati. Se la Germania continua a non capirlo – o a capirlo con il sistematico ritardo connesso alle scadenze elettorali interne – e a imporre misure “rigorose” che impediscono la ripresa dei paesi europei maggiormente in crisi, taglierà il ramo su cui essa stessa è seduta.
5. Il cosiddetto “Patto per l’euro” stilato in primavera a Bruxelles, pur accordando rilevanza alla convergenza delle economie reali, si limita invece alle consuete indicazioni di ricercare la competitività su basi nazionali. A tal fine in esso si fa riferimento esclusivamente alle condizioni dell’offerta: ad un aumento della flessibilità del lavoro e alla riduzione dei costi produttivi, tra cui vengono evidenziati quelli per le prestazioni sociali, sanitarie e pensionistiche, (continuando a sottovalutare il ruolo che esse possono avere sia per migliorare i presupposti sociali della capacità d’offerta sia le non meno rilevanti condizioni della domanda).
Ma per uscire dalla crisi, non se ne possono ignorare le motivazioni strutturali inizialmente ricordate. Tuttavia, a tre anni dall’esplosione della crisi e ancora dopo il suo recente aggravarsi, l’ostacolo maggiore al suo superamento rimane la diffusa resistenza a riconoscerne la profondità e la natura reale (non puramente finanziaria) delle cause.
Questa riluttanza è alimentata dal perdurante prevalere di interessi materiali, di teorie economico-politiche e di un senso comune nell’opinione pubblica ancora collegati alle modalità del processo economico che hanno caratterizzato gli ultimi tre decenni. Come diceva Keynes, il problema non sta tanto nell’affermazione delle nuove idee quanto nel liberarsi dalle vecchie.
Per uscire in modo positivo dalla crisi è necessario rilanciare la crescita, ma tenendo conto dei suoi aspetti qualitativi ed ecologici, ovvero: di cosa si consuma e cosa si produce, considerando le forti differenze territoriali quantitative e qualitative esistenti tra i bisogni insoddisfatti e le disponibilità di risorse; con quali tecniche, con quale organizzazione del processo produttivo e con quali modalità d’impiego e partecipazione alle scelte dei lavoratori; come si distribuiscono e si impiegano i frutti del processo produttivo.
Per rilanciare la crescita e la sua qualità occorre sostenere non solo le condizioni d’offerta, ma anche quelle della domanda mediante un miglioramento della distribuzione del reddito. E’ indispensabile che il mercato sia integrato e regolato dall’intervento pubblico e, in particolare, dalle politiche sociali necessarie a contrastarne l’instabilità accresciuta dalla globalizzazione.
A ben vedere si tratta di un’agenda particolarmente congeniale alla Sinistra alla quale si presenta un’occasione storica per rientrare in gioco da protagonista.
Tuttavia, in Europa, l’efficacia di queste politiche sarebbe molto accresciuta se attuate su scala continentale anziché locale, se si sostituissero le competizioni nazionali (o nazionalistiche) con un approccio unitario fondato sulla presa d’atto che il modello d’accumulazione degli ultimi trent’anni va sostituito.
Storicamente, anche nel nostro paese, la sinistra ha avuto con il processo d’unificazione europea rapporti ambivalenti. Accanto a convinti sostenitori c’è sempre stata una corrente almeno dubbiosa che negli ultimi anni ha trovato elementi di comprensibile sconforto nelle modalità neoliberiste che hanno caratterizzato la costruzione dell’Unione.
Tuttavia, senza negare le difficoltà come quelle sopra ricordate, si deve prendere atto che, in aggiunta alle sue motivazioni storiche, oggi il processo d’unificazione europeo è il terreno che meglio si presta all’affermazione di politiche e scelte capaci di farci uscire dalla crisi in modo positivo.
Naturalmente in Europa possono essere decise anche politiche non condivisibili, contraddittorie e controproducenti – come in molti casi è già avvenuto e come continua ad avvenire. Ma non v’è dubbio che i margini per politiche di progresso perseguite autonomamente a livello nazionale sono sempre più ristretti, mentre i rischi di risorgenti conflitti nazionali sono sempre presenti.
La Sinistra deve dunque operare con convinzione per contribuire a riavviare su basi più solide il processo d’unificazione europea. In questa direzione occorre incrementare i contatti con tutte le forze progressiste europee per concordare terreni e linee di lavoro comuni capaci di recuperare anche le specificità positive della nostra storia continentale come, ad esempio, la creazione e lo sviluppo dei sistemi di welfare state.
Purtroppo, come sappiamo, la crisi in atto riguarda anche la politica e coinvolge non da meno la Sinistra che, nonostante i problemi da affrontare in questa fase storica le siano particolarmente congeniali, fa fatica a rapportarsi alla loro complessità con un approccio coerente a se stessa e alle necessità che si pongono. Si tratta di un disorientamento lungamente protratto, cui molto hanno contribuito i fallimenti del comunismo reale. In alcuni casi quelle esperienze storiche e il loro divario con le aspettative hanno avuto una metabolizzazione lenta, parziale, difettosa e ambigua che ha ostacolato la comprensione dell’evolversi dei tempi. In altri casi, l’ansia di modernità si è risolta in sbrigativi cortocircuiti intellettuali che, per contrappasso, hanno generato e continuano ad indurre ingiustificati cedimenti – se non adesioni – a visioni, interpretazioni e ricette convenzionali, frutto della riedizioni di idee obsolete di cui la crisi attuale conferma drammaticamente l’inadeguatezza. A questi esiti ha contribuito anche quella manifestazione di autoreferenzialità della politica e dei politici che pregiudica la possibilità di fondare le scelte su una adeguata organizzazione dell’attività collettiva di valutazione e finalizzazione delle conoscenze. Un conseguente effetto che si diffonde nell’opinione corrente, anche nella sua componente più progressista, è il conservatorismo per presunta mancanza di alternative cioè il dubbio devastante che non sia possibile praticare altro che valori socio-culturali e la ratio delle politiche affermatesi negli ultimi decenni, ma che – al più – sia possibile sostituire la classe dirigente che l’ha applicata senza il necessario “rigore” (economico, etico, professionale, estetico, ecc).
Naturalmente, per un’applicazione più “rigorosa” delle vecchie idee non c’è bisogno della Sinistra. E anche per quanto riguarda l’Europa, si tratterebbe d’insistere e approfondire il modello applicato negli ultimi decenni che, tuttavia, come è evidente anche a qualche protagonista dei mercati più illuminato, per motivi che in parte sono stati ricordati in precedenza, sta conducendo alla dissoluzione del suo progetto d’unificazione e al suo declino; un esito, peraltro, che non contribuirebbe positivamente nemmeno alle sorti della crisi globale.