Il primo ministro inglese, intervenendo ai Comuni per presentare la linea del suo governo nei confronti dei disordini a Londra e nelle altre città, mostra di non averne ben afferrato la natura sociale e le novità comunicative
Commenti al discorso del primo ministro inglese Cameron ce ne saranno molti. E facile è prevedere che tono e misure prese saranno oggetto di critiche da alcune parti e riceveranno invece, da altre, apprezzamenti e consenso: il potenziamento delle forze di polizia e il loro ruolo, la centralità della “questione sicurezza”, oltre mille persone arrestate, l’enfasi sulle sanzioni penali.
Avendola seguita “in diretta” (su uno dei canali della Bbc) la seduta del Parlamento britannico dell’11 luglio, le mie impressioni si sono organizzate, se così si può dire, in due passaggi successivi.
Il primo, ovvio per una sociologa. David Cameron ha insistito su una lettura tutta “culturale”, ignorando l’altra (possibile, plausibile?) dimensione, quella sociale. Nessun accenno alle condizioni di vita nei “quartieri difficili”, alla disoccupazione, alle esperienze delle diverse comunità di immigrati. Nessuna attenzione rivolta ad aspettative e problemi di una generazione che, non soltanto in Inghilterra naturalmente, manifesta sfiducia, preoccupazione, rancore. “La responsabilità è dei genitori”, queste le parole con cui ha liquidato la questione. E facendo riferimento alle immagini che i media hanno trasmesso ripetutamente (l’organizzazione in bande, i furti e i danni, le violenze), “non sono i nostri giovani”.
Di questo approccio si discuterà, da una parte cogliendone aspetti di semplificazione e anche di distorsione, oppure condividendo analisi e proposte (e lo stesso linguaggio).
Ma vorrei soffermarmi su altre chiavi di lettura del discorso.
Nessun riferimento, in un discorso in sede parlamentare e in un’occasione importante, a una prospettiva di medio o più lungo termine; e portando lo sguardo fuori (delle città coinvolte, della società inglese). Nessun riferimento al contesto europeo (il pezzo di mondo in cui siamo collocati, ci piaccia o no) e a una prospettiva che metta in luce condizioni e dati che accomunano le vicende di cui si discuteva a quelle di altri paesi. Una chiave di lettura tutta “nazionale” o, meglio, “locale”. Non sono visti come rilevanti eventi e “attori” di un quadro che per molti aspetti è parte dell’Europa degli anni che abbiano davanti: le vicende che da molti mesi ormai segnano la vita di milioni di persone in Africa e in Medio Oriente; Lampedusa (per riassumere con questa parola i processi che legano i due lati del Mediterraneo). Ancora, come hanno reagito i capi dei governi francese e italiano. La costruzione del muro, in Danimarca, per bloccare il passaggio di persone. Come cercare di capire i tragici fatti del mese scorso in Norvegia.
Che si leggano fatti, ovviamente di grande significato e rilievo, evitando ogni collegamento – o meglio, inquadramento – nel contesto europeo (e dicendo la dimensione europea non si ignorano i processi della “globalizzazione”); e senza pensare al più lungo termine, al futuro, un contesto di inevitabili cambiamenti (che ci coinvolgeranno in forme diverse, certo). E che non si porti l’attenzione sugli “attori” (le nuove modalità del loro organizzarsi grazie ai meccanismi della comunicazione, mossi però anche da un evidente bisogno di rendersi visibili, di cogliere il senso dell’agire insieme: dall’essere, appunto, “attori”): sono segnali sui quali riflettere.