L’effetto lungo del liberismo sulla cultura e sull’economia, analizzato attraverso due parole-simbolo: flessibilità e globalizzazione. Usate e abusate per negare un’autonomia della società rispetto a presunte leggi economiche
A partire dagli anni ottanta, la cosiddetta rivoluzione “liberista” ha improntato di sé la cultura non solo economica, riproponendo quell’approccio ingegneristico all’economia che nei quaranta anni precedenti era rimasto ai margini del dibattito. Un cambiamento che può essere considerato anche il modo in cui si è consolidato il retroterra ideologico indispensabile per il buon funzionamento di un modello di sviluppo in cui i mercati finanziari stavano assumendo una nuova centralità.
L’idea di crescita economica che si è venuta affermando da allora ha fatto perno su un insieme di convinzioni diventate pressoché indiscutibili sia nella comunità scientifica ufficiale, sia, e per certi versi soprattutto, a livello di “senso comune”. E cioè in primo luogo che il mercato dovesse essere considerato la sola istituzione capace di garantire lo sviluppo economico di lungo periodo. E dunque che non potesse esistere alcuna razionalità collettiva che potesse sovrapporsi o contrapporsi alla razionalità espressa dal mercato. In questa visione lo stato non può svolgere alcun ruolo propositivo nello sviluppo economico se non quello di creare l’ambiente più favorevole possibile per mettere in grado il sistema privato di esprimere tutte le sue capacità di sviluppo; e ciò attraverso politiche che devono essere le meno invasive possibili e devono creare le condizioni per il pieno realizzarsi di situazioni di concorrenza laddove queste non fossero esistite. La seconda convinzione che ha guidato il buon senso di chi si occupava di economia negli ultimi trenta anni è stata che, per garantire una efficiente allocazione internazionale delle risorse, i mercati dei capitali dovessero essere completamente liberati da ogni ostacolo sia alla loro mobilità che alla loro capacità di innovazione. La terza convinzione, infine, è stata che gli Stati uniti dovessero essere considerati il modello di organizzazione economica al quale tutti gli altri paesi dovevano conformarsi, se volevano competere con successo sul piano internazionale come sistema economico sociale.
Ma le implicazioni profonde della rivoluzione liberista possono essere colte in maniera anche più chiara se si riflette sul significato dei due termini che in qualche modo possono essere considerati i punti di riferimento del dibattito economico di questi anni e cioè “flessibilità” e “globalizzazione”. Termini tanto ricorrenti, quanto dal significato incerto e tutt’altro che scontato; termini che la letteratura e la pubblicistica hanno tentato di definire in molti modi, anche relativamente diversi tra loro, ma che più che altro hanno assunto il ruolo di parole simbolo, evocative di un determinato approccio ai problemi dell’economia e, ancor di più, di un modo di intendere il rapporto tra la dimensione economica e quella non economica.
Quando infatti si sono sottolineate le esigenze di “flessibilità” per il buon funzionamento dei sistemi economici, quello che si è voluto affermare è che le ragioni di tipo sociale devono essere considerate meno importanti rispetto a quelle di tipo economico. In altre parole, attraverso questo termine si è voluta suggerire l’idea che la società non può opporsi, con le logiche che le sono proprie, a quelle imposte dalle necessità economiche. In sostanza, parlare dell’esigenza di flessibilità vuol dire dare due cose per scontate. La prima è la completa autonomia della dimensione economica da quella sociale. La logica dell’economia è separata e diversa da quella della società. La seconda è che se si vuole dar spazio a istanze di tipo sociale si deve sapere che si tratta di scelte che impongono costi in termini di minore efficienza. Dunque, se una società si pone come obiettivo la crescita economica non può che considerare le logiche della società come subalterne a quelle dell’economia. Con tutte le conseguenze sul piano dell’organizzazione sociale che derivano dall’estraneità alla dimensione economica dei sistemi di valori che invece hanno rilevanza decisiva nel definire il modo in cui si organizza un corpo sociale.
Il secondo termine simbolo è stato “globalizzazione”. Anche in questo caso, più che a un significato preciso quello a cui si è voluto far riferimento è stato a qualcosa di fortemente evocativo e cioè al fatto che la dimensione nazionale non può essere più considerata un punto di riferimento rilevante per chi si occupa di studiare e/o gestire i processi economici. Quando si è parlato di “globalizzazione” si è voluto mettere in primo luogo in evidenza il fatto che il ruolo dello stato nel governo dell’economia non può essere significativo, perché la dimensione geografica di riferimento si è enormemente ampliata e sono altri gli attori che possono giocare un qualche ruolo a questa dimensione più ampia (l’allusione, neanche troppo implicita, è alle imprese che operano sul piano internazionale, le multinazionali); e vuol dire, in secondo luogo, che lo stato, anche se non può essere il soggetto dello sviluppo, può invece diventare un ostacolo allo stesso se non pensa la sua politica di intervento come uno strumento di sostegno per i soggetti che si muovono, o si possono muovere a livello “globale” e cioè le imprese. In questa ottica lo stato non si deve tanto proporre di tutelare i più “deboli”, quanto quello di supporto per i più forti.
La società, dunque, in questa visione, non solo deve adeguarsi, adattarsi alle regole imposte da una crescente competizione internazionale, cioè le cosiddette “leggi” dell’economia, ma anche le istituzioni pubbliche possono svolgere un ruolo positivo solo nel momento in cui il loro agire si muove all’interno di logiche economiche e tendono ad assecondare le richieste che vengono dal mercato. Le regole che una organizzazione sociale si vuol dare, anche quelle fondamentali come le stesse costituzioni, se ci si pone in questa ottica, non possono essere in nessun caso in un contrasto insanabile con la logica dell’efficienza che, essendo il presunto punto di riferimento della cultura economica, non può che informare di sé anche la realtà sociale.
Probabilmente non si è riflettuto abbastanza sugli effetti di una visione di questo tipo sugli equilibri sociali dei paesi avanzati, soprattutto nel più lungo periodo. Quello che è certo è che la politica dell’inclusione, che era stata l’asse portante nella costruzione delle democrazie dell’Europa occidentale nel dopoguerra, ha finito col perdere di spessore. Da elemento cruciale di un progetto di convivenza civile si è trasformata in una politica che, in quanto costosa, può essere sviluppata solo a determinate condizioni e in misura circoscritta.