Questo testo è stato scritto dal grande economista Kalecki nel 1943. Lo pubblichiamo nella versione rivista nel 1970, e lo offriamo ai lettori di sbilanciamoci.info come riLettura utile per l’estate 2010
Il problema di garantire il pieno impiego tramite l’espansione della spesa pubblica, finanziata col debito pubblico, è stato largamente discusso negli ultimi anni. Tale discussione si è tuttavia concentrata sul lato puramente economico di tale problema, senza la dovuta considerazione dei suoi aspetti politici. La premessa che il governo di uno Stato capitalistico manterrà il pieno impiego, se soltanto saprà come farlo, non è assolutamente ovvia. L’avversione del grande capitale al mantenimento del pieno impiego tramite le spese statali ha a questo proposito un’importanza fondamentale. Tale attitudine si è manifestata chiaramente all’epoca della grande crisi economica degli anni trenta, quando i capitalisti hanno combattuto costantemente gli esperimenti volti ad accrescere l’occupazione per mezzo della spesa pubblica in tutti i paesi, con l’eccezione della Germania hitleriana. Non è facile spiegarsi tale posizione. E’ chiaro infatti che un più elevato livello della produzione e dell’occupazione è favorevole non soltanto ai lavoratori ma anche ai capitalisti, poiché i loro profitti si accrescono. D’altra parte la politica di pieno impiego, basata sulle spese statali finanziate in deficit, non incide negativamente sui profitti in quanto appunto non richiede l’istituzione di nuove imposte. In una situazione di crisi i “capitani d’industria” si struggono per la ripresa. Perché quindi non accolgono con gioia la “ripresa artificiale” che lo Stato offre loro? E’ di tale difficile problema, di non comune interesse, che noi vogliamo occuparci in questo articolo.
I
1. Le ragioni dell’opposizione dei capitalisti al pieno impiego realizzato dal governo tramite la spesa pubblica possono venir suddivise in tre categorie: 1) l’avversione all’ingerenza dello Stato nella questione dell’occupazione in genere; 2) l’avversione nei confronti della direzione delle spese pubbliche (gli investimenti pubblici e le sovvenzioni del consumo); 3) l’avversione alle trasformazioni sociali e politiche derivanti dal mantenimento costante del pieno impiego.
Esaminiamo quindi in dettaglio ognuno dei tre tipi di obiezioni alla politica di espansione economica dello Stato.
2. Consideriamo quindi in primo luogo l’avversione dei “capitani d’industria” all’intervento pubblico nelle questioni dell’occupazione. Ogni allargamento dell’ambito dell’attività economica dello Stato è visto con sospetto dai capitalisti; ma l’accrescimento dell’occupazione tramite le spese statali ha un aspetto particolare che rende la loro opposizione particolarmente intensa. Nel sistema del laissez faire il livello dell’occupazione dipende in larga misura dalla così detta atmosfera di fiducia. Quando questa si deteriora, gli investimenti si riducono, cosa che porta a un declino della produzione e dell’occupazione (direttamente, o indirettamente, tramite l’effetto di una riduzione dei redditi sul consumo e sugli investimenti). Questo assicura ai capitalisti un controllo automatico slla politica governativa. Il governo deve evitare tutto quello che può turbare l’ “atmosfera di fiducia”, in quanto ciò può produrre una crisi economica. Ma una volta che il governo abbia imparato ad accrescere artificialmente l’occupazione tramite le proprie spese, allora tale “apparato di controllo”perde la sua efficacia. Anche per questo il deficit del bilancio, necessario per condurre l’intervento statale, deve venir considerato come pericoloso. La funzione sociale della dottrina della “finanza sana” si fonda sulla dipendenza del livello dell’occupazione dalla “atmosfera di fiducia”.
3. L’avversione dei “capitani d’industria” alla politica di espansione della spesa pubblica diventa ancor più acuta allorché si cominciano a considerare i fini per cui tale spese possono venir destinate, e cioè gli investimenti pubblici e la sovvenzione del consumo di massa.
Il fine cui mira l’intervento statale richiede che gli investimenti pubblici si limitino agli oggetti che non competono con l’apparato produttivo del capitale privato (ad esempio ospedali, scuole, strade, ecc.), in caso contrario infatti l’accrescimento degli investimenti pubblici potrebbe aver un effetto negativo sul rendimento degli investimenti privati, e la caduta di questi potrebbe compensare l’effetto positivo degli investimenti pubblici sull’occupazione. Tale concezione è per i capitalisti interamente di loro gusto, ma l’ambito degli investimenti pubblici di tale tipo è piuttosto ristretto e vi può essere la possibilità che il governo, agendo secondo la logica di tale politica possa spingersi a nazionalizzare i trasporti o i servizi pubblici, per poter allargare l’ambito del suo intervento[1].
Ci si può quindi attendere che i “capitani d’industria” e i loro esperti abbiano una disposizione più favorevole nei confronti del sovvenzionamento del consumo di massa (tramite gli assegni familiari, i sussidi volti alla riduzione del prezzo degli articoli di prima necessità, ecc.) piuttosto che nei confronti degli investimenti pubblici: nel sovvenzionare il consumo lo Stato non interferirebbe infatti in alcuna misura nella sfera dell’ “attività imprenditoriale”. In realtà tuttavia la questione si presenta altrimenti: la sovvenzione dei consumi di massa incontra un’avversione ancora più aspra di tali esperti che nei confronti degli investimenti pubblici.
Ci imbattiamo qui infatti in un principio “morale” della più grande importanza: le basi dell’etica capitalistica richiedono che “ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte” (a meno che tu non viva dei redditi del capitale).
4. Abbiamo già considerato le ragioni politiche dell’opposizione alla politica di creazione di occupazione tramite la spesa pubblica Ma anche se tale posizione fosse vinta, cosa che può in realtà verificarsi sotto la pressione delle masse, il mantenimento del pieno impiego porterebbe a trasformazioni politiche e sociali che darebbero nuova forza all’opposizione dei “capitani d’industria”. Infatti, in un regime di continuo pieno impiego il licenziamento cesserebbe di agire come misura disciplinare. La posizione sociale del “principale” sarebbe scossa, si accrescerebbe la sicurezza di sé e la coscienza di classe dei lavoratori. Gli scioperi per un salario più alto e il miglioramento delle condizioni di lavoro sarebbero fonti di tensione politica.
E’ vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego, rispetto al loro livello medio sotto il laissez faire. Persino la crescita dei salari derivante dalla posizione più forte dei lavoratori verrebbe ad agire piuttosto in direzione di un accrescimento dei prezzi che di una riduzione di profitti e in tale maniera verrebbe a colpire soprattutto gli interessi dei redditieri.
Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti. L’istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione non è “sana” dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico normale.
II
1. Una delle funzioni importanti del fascismo, come si può vedere nel caso dell’hitlerismo, fu l’eliminazione dei motivi per l’avversione dei capitalisti nei confronti del pieno impiego.
L’avversione alle spese pubbliche come tali viene superata dal fascismo col fatto che la macchina statale è sotto il controllo diretto di una associazione del grande capitale col vertice fascista. Il mito della “finanza sana” che era necessario per impedire al governo di agire contro una “crisi di fiducia” tramite la spesa pubblica è ora superfluo. Nello Stato democratico non si sa con sicurezza come sarà il governo seguente, mentre nello Stato fascista non c’è governo seguente.
L’avversione nei confronti delle spese statali per gli investimenti pubblici e per sovvenzionare il consumo di massa viene superata dalla concentrazione delle spese statali negli armamenti. Infine, “la disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” con il pieno impiego sono assicurate dal “nuovo ordine”,di cui vengono a far parte vari mezzi: dallo scioglimento dei sindacati ai campi di concentramento. La pressione politica sostituisce qui la pressione economica della disoccupazione.
2. Il fatto che gli armamenti sono il nerbo della politica fascista di pieno impiego ha un’influenza profonda sul carattere economico di questa. Il riarmo su larga scala si accompagna all’espansione delle forze armate e a piani di conquista. In tale maniera lo scopo principale dell’espansione della spesa pubblica si trasferisce gradualmente dal pieno impiego alla realizzazione del massimo effetto di riarmo. Ciò porta alla limitazione del consumo al di sotto del livello che potrebbe venir ottenuto in corrispondenza del pieno impiego.
Il sistema fascista inizia col vincere la disoccupazione, si sviluppa in “economia di guerra” che tende inevitabilmente alla guerra.
III
1. Quali saranno le conseguenze pratiche dell’opposizione dei capitalisti nei confronti della politica di pieno impiego nella democrazia capitalistica? Cercheremo di rispondere a tale domanda sulla base delle analisi delle ragioni di tale opposizione che abbiamo appena condotto. Abbiamo mostrato che occorre aspettarsi un’avversione dei “capitani d’industria” su tre piani: 1) un’opposizione di principio nei confronti dell’espansione della spesa pubblica; 2) un’opposizione nei confronti del fatto che le spese totali siano dirette sia verso gli investimenti pubblici (ciò che può provocare l’inserimento dello Stato in nuovi settori di attività economica) sia verso il sovvenzionamento del consumo di massa; 3) l’opposizione nei confronti di un mantenimento costante del pieno impiego.
Occorre prima di tutto affermare che il periodo nel quale i “capitani d’industria” potevano permettersi di combattere qualsiasi forma di intervento statale, avente come scopo una attenuazione delle crisi economiche, appartiene ormai piuttosto al passato. Attualmente non si pone in questione la necessità dell’intervento pubblico in tempo di crisi. La controversia si riferisce piuttosto ancora alla direzione di tale intervento e al fatto se esso debba venir posto in essere soltanto al fine di attenuare la crisi, o anche deve tendere ad assicurare un costante pieno impiego.
2. Nelle discussioni correnti su tale tema riemerge continuamente la concezione secondo cui la crisi deve essere contrastata tramite la stimolazione dell’investimento privato. Tale stimolazione può consistere nell’abbassamento del tasso d’interesse, nella riduzione dell’imposta sui profitti o anche nel sovvenzionamento diretto degli investimenti privati in questa o quella maniera. Non c’è niente di strano nel fatto che per i capitalisti tali metodi di intervento siano attraenti. Il capitalista resta l’intermediario tramite il quale l’intervento viene ad essere effettuato. Qualora la situazione politica non gli dia fiducia, allora non si fa “comprare” e non accresce i suoi investimenti. Nello stesso tempo tale tipo di intervento non porta lo Stato a “giocare agli investimenti” (pubblici), non fa “buttar via i soldi” nel sussidiare il consumo. E’ possibile tuttavia dimostrare che l’incentivazione dell’investimento privato non è un metodo adeguato per prevenire la disoccupazione di massa.
Occorre a tale proposito considerare due casi. a) In tempo di crisi il tasso d’interesse o l’imposta sui profitti vengono ridotti fortemente e vongono cresciuti in periodo di ripresa. In tale caso sia il periodo, come l’ampiezza del ciclo congiunturale possono venir ridotti. Ma l’economia può rimanere lontana dallo stato di pieno impiego non solo in tempo di crisi, ma anche in tempo di ripresa congiunturale; cioè la disoccupazione media può essere ancora elevata, nonostante le sue oscillazioni siano più deboli. b) In periodo di crisi ancora una volta il tasso d’interesse e l’imposta sui profitti vengono ad essere ridotti, ma nel boom successivo non vengono rialzati. In tale caso il boom durerà più a lungo, ma terminerà di nuovo in una nuova crisi, in quanto la semplice riduzione del tasso d’interesse o dell’imposta si profitti non elimina ovviamente le forze che suscitano le oscillazioni congiunturali nell’economia capitalistica. Nella nuova crisi occorrerà ulteriormente ridurre il tasso d’interesse o l’imposta sui profitti e così via. In tale maniera in un tempo non troppo lontano il tasso d’interesse dovrebbe diventare negativo e l’imposta sui profitti dovrebbe essere sostituita da un sussidio.
Lo stesso si verificherebbe qualora si cercasse di mantenere il pieno impiego con l’aiuto di incentivi per gli investimenti privati. Il tasso d’interesse e l’imposta sui profitti dovrebbero venir continuamente ridotti.
In aggiunta a questo fondamentale difetto del combattere la disoccupazione incentivando gli investimenti privati esiste ancora una difficoltà ulteriore di carattere pratico. La reazione degli imprenditori all’impiego degli strumenti dei quali abbiamo parlato non è sicura. In tempi di crisi grave possono aver aspettative molto pessimistiche e la riduzione del tasso d’interesse e dell’imposta sui profitti può allora per lungo tempo agire in maniera molto ridotta sugli investimenti e quindi sul livello della produzione e dell’occupazione.
3. Persino coloro che si dichiarano favorevoli a combattere la crisi creando degli incentivi per gli investimenti privati, spesso non fanno affidamento esclusivamente su tale metodo, ma prendono in considerazione ugualmente gli investimenti pubblici. La situazione si presenta attualmente come se i “capitani d’industria” e i loro esperti avessero tendenza ad accettare, come “male minore”, una attenuazione della crisi tramite le spese pubbliche finanziate per via del deficit di bilancio. Sembra tuttavia che essi siano ancora ostinatamente contrari ad un accrescimento dell’occupazione ottenuto sovvenzionando il consumo e agli sforzi di mantenere il pieno impiego.
Tale stato di cose sarà forse sintomatico per il futuro sistema economico delle democrazie capitalistiche. Il tempo di crisi o in seguito alla pressione delle masse, e forse anche senza di questo, si metteranno in moto gli investimenti pubblici finanziati tramite il deficit di bilancio, allo scopo di contrastare la disoccupazione di massa. Ma qualora si facciano dei tentativi per utilizzare tali metodi al fine di mantenere l’elevato livello di occupazione raggiunto nel boom successivo, si andrà incontro probabilmente ad una aspra opposizione da parte dei “capitani d’industria”. Come abbiamo già mostrato più sopra, essi non desiderano assolutamente un pieno impiego costante. I lavoratori diventano in tale situazione “recalcitranti” e i “capitani d’industria” diventano ansiosi di “dar loro una lezione”. Inoltre la crescita dei prezzi in tempo di boom agisce a svantaggio dei redditieri piccoli e grandi, cosicché oggi essi cominciano ad avversare l’alta congiuntura.
In tale situazione si forma probabilmente un blocco del grande capitale e delle rendite, e tale blocco trova probabilmente più di un econo ista pronto a dichiarare che la situazione è estremamente poco sana. La pressione di tutte queste forze, e in particolare del grande capitale, induce sicuramente il governo al ritorno alla politica tradizionale di pareggio del bilancio. In tale maniera subentra la crisi, nella quale la politica di espansione delle spese pubbliche riacquista di nuovo il proprio significato.
Tale schema di “ciclo congiunturale politico” non è del tutto ipotetico, in quanto uno sviluppo analogo degli avvenimenti si è verificato negli Stati Uniti negli anni 1937-38. L’interruzione del boom nella seconda metà del 1937 fu in realtà la conseguenza di una forte riduzione del deficit del bilancio. D’altra parte nell’acuta crisi che di nuovo ne derivò, il governo ritornò rapidamente alla politica di espansione delle spese pubbliche. Per cui il regime del “ciclo congiunturale politico” non assicurerebbe il pieno impiego tranne che nel punto massimo del boom, me le crisi sarebbero relativamente moderate e di breve durata.
1 Occorre qui osservare che gli investimenti nei rami nazionalizzati possono contribuire alla risoluzione del problema della disoccupazione solo nel caso in cui vengano eseguiti con criteri diversi da quelli con cui operano le imprese private. Le imprese pubbliche devono eventualmente accontentarsi di un tasso inferiore di profitto e programmare i loro investimenti in maniera tale da attenuare le crisi economiche.