L’emergenza energia ha bisogno di forti investimenti nella ricerca. Ma questi sono crollati in tutto il mondo, con la privatizzazione delle relative aziende
Che la crescente domanda mondiale di energia si stia scontrando con vincoli di offerta è un fatto da tempo acclarato. Non a caso, il controllo delle fonti energetiche è stato ed è tuttora all’origine di gran parte, se non della totalità, dei conflitti internazionali. Un secondo, rilevante vincolo con cui confliggono i maggiori consumi energetici è la qualità globale dell’ambiente. A meno che non si accetti che il prezzo dell’energia continui a salire, le tensioni con l’offerta e l’ambiente non possono che essere risolte da un’ondata di innovazioni tecnologiche rilevanti. Queste ultime dovrebbero concentrarsi, da un lato, sulle nuove fonti di energia e, dall’altro, sull’uso più efficiente e la riduzione degli impatti ambientali delle fonti esistenti. Su questo fronte vi sono stati indubbi progressi, ma la difficile sfida tecnologica e la portata globale del problema impongono uno sforzo assai maggiore, soprattutto in termini di investimenti in ricerca e sviluppo (R&S).
Purtroppo, quello che è avvenuto negli ultimi decenni è esattamente il contrario. Se si guarda all’esperienza dei paesi avanzati, la riduzione delle spese in R&S nei settori energetico ed elettrico è stata drammatica. Tra il 1990 e il 2004, sia negli Usa che nell’Unione europea, la flessione in termini reali è stata di circa il 40%. Pur considerando che anche i contributi pubblici sono diminuiti, la maggiore responsabilità di questa débacle va imputata alle imprese che producono e distribuiscono energia elettrica: i loro investimenti in R&S si sono ridotti del 70% negli Usa, del 60% in Europa e, tra il 1995 e il 2004, di circa il 40% in Giappone.
Tale fenomeno è essenzialmente dovuto ai processi di deregolamentazione, privatizzazione e liberalizzazione dei mercati dell’elettricità che, seppur con intensità e tempistiche diverse, hanno riguardato tutti paesi sopra menzionati. Il semplice annuncio della liberalizzazione (che poi una maggiore concorrenza si sia effettivamente esplicata è tutto da dimostrare) ha fatto sì che le imprese elettriche private o in via di privatizzazione depotenziassero fino a smantellarli i loro laboratori o dipartimenti di R&S. Chiaramente, i progetti di ricerca che sono stati pressoché azzerati sono stati quelli a lungo termine, più ambiziosi e rischiosi, vale a dire proprio quelli di cui il sistema avrebbe avuto bisogno per far fronte alle carenze di offerta e all’emergenza ambientale.
A conferma del ruolo giocato dalle scelte pubbliche orientate alla privatizzazione, da una recente analisi che ho condotto emerge che, tra le prime 10 imprese nel mondo per produzione e distribuzione di energia elettrica, le uniche che non hanno ridotto gli investimenti in R&S sono quelle rimaste saldamente in mano pubblica (Electricité de France, la svedese Vattenfall e Hydro-Québec in Canada). Enel, seppur detenuta al 30% dal governo italiano, si è comportata peggio delle altre imprese private, riducendo, tra il 2000 e il 2007, le spese di ricerca da 124 a 29 milioni di euro. In teoria, le attività di R&S abbandonate da Enel avrebbero dovuto essere finanziate dagli utilizzatori finali tramite un adeguamento delle tariffe elettriche ma, in realtà, le risorse reperite in questo modo (58 milioni nel 2007) non hanno affatto compensato la riduzione. Il risultato è che in Italia, rispetto al 2000, si destina circa il 30% in meno alla ricerca a vantaggio del sistema elettrico. In modo più o meno accentuato, lo stesso fenomeno è avvenuto nei numerosi paesi in cui non operano imprese elettriche pubbliche.
Il punto è che, folgorati dalle magnifiche sorti e progressive del libero mercato, i decisori pubblici non hanno considerato che la maggiore concorrenza nei mercati elettrici poteva sì dar luogo ad un abbassamento dei prezzi nell’immediato ma, al tempo stesso, ridurre gli sforzi innovativi delle imprese e, quindi, la possibilità di abbassare i prezzi nel futuro. Nel gergo degli economisti, si è perseguita l’efficienza statica del sistema anche se ciò poteva pregiudicarne l’efficienza dinamica. Di conseguenza, il paradosso in cui ci troviamo attualmente è che pur in presenza di mercati (apparentemente) competitivi i prezzi dell’energia rischiano di aumentare. Tutto ciò per vincoli di offerta e ambientali che nulla hanno a che fare con la concorrenza, ma che potrebbero essere stemperati se tutti gli attori, privati e pubblici, che operano nei o incidono sui mercati dell’energia investissero adeguate risorse nella ricerca e nell’innovazione.
Secondo un rapporto predisposto nel 2005 dall’Advisory Group on Energy per conto della Commissione Europea (Key tasks for future European Energy R&D), per garantire nel futuro fonti di energia più sicure e pulite e meno costose gli investimenti nella R&S dovrebbero ritornare ai livelli di 25 anni fa, cioè aumentare di quattro volte rispetto a quelli attuali. E’ chiaro che, senza il contributo delle imprese che operano nei mercati elettrici, il solo settore pubblico non può far fronte ad un’esigenza di questa portata. Si noti che stiamo parlando di imprese con un giro d’affari enorme: le prime 10 nel mondo che ho esaminato fatturavano più di 350 miliardi di euro nel 2007 (una cifra nettamente superiore al PIL della Svezia). Per ripristinare un’adeguata capacità innovativa a livello globale, insieme ad un rilancio degli investimenti pubblici, sarebbe sufficiente che tutte le imprese elettriche destinassero l’1 per cento del loro fatturato ad attività di ricerca (attualmente, lo fanno per meno dello 0.4 per cento).
A questo fine, l’unica strada percorribile è quella di imporre un “obbligo di ricerca” alle imprese di grande dimensione che producono e distribuiscono energia elettrica. E’ chiaro che in un mercato elettrico mondiale dove le principali imprese operano sempre più come multinazionali, tale obbligo non potrà che essere generalizzato e, quindi, comune a tutti i paesi. A prima vista, introdurre una tale imposizione su scala globale può apparire una missione impossibile. In realtà, se si considera la ridotta numerosità dei soggetti privati interessati, è decisamente più semplice che accordarsi su un obiettivo improrogabile come la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra. Sarebbe sufficiente che i governi riconoscessero che la liberalizzazione dei mercati elettrici qualche effetto indesiderato lo ha prodotto e, quindi, ne traessero le opportune conseguenze.
Nell’allegato Pdf, il paper “Energy R&D in private and state-owned utilities: an analysis of the major world electric companies”, del quale quest’articolo è una sintesi