Il fallimento di Copenhagen è anche un fallimento dei padroni di casa: l’Unione europea e i suoi Stati membri, incapaci di assumere un ruolo di leadership, di fornire garanzie e investimenti perché i paesi più poveri e le economie emergenti decidessero di assumersi responsabilità dirette nella riduzione delle emissioni
L’accordo di Copenhagen è un non-accordo, un mero gesto di creatività diplomatica pur di non perdere completamente la faccia. Bastava leggere il viso tirato di Yvo de Boer, il rappresentante ONU per il clima e padrone di casa della COP 15, per capire che la conferenza internazionale sul post-Kyoto è stata un vero e proprio ‘flop’.
La riunione a sorpresa tra Obama e i capi di stato e di governo di Brasile, Cina, India e Sudafrica che ha prodotto il cosiddetto ‘Copenhagen Accord’ ha suggellato una conferenza internazionale deprimente, mal gestita (da una presidenza danese impreparata ed autocratica) e sorda alle richieste di milioni e milioni di cittadini in tutto il mondo, rappresentati in forme diverse (ma con un unico obiettivo) dai movimenti sociali arrivati nella gelida capitale danese. Di fatto, la bozza ‘appoggiata’ dalla conferenza è una dichiarazione di intenti. Un invito a fare di più nel corso del prossimo anno (forse prima della COP16 di Città del Messico), senza alcun vincolo e senza neppure individuare un viatico perché le riduzioni indicate dall’IPCC siano il punto di riferimento per tutti.
Non si tratta neanche di un risultato al minimo comune denominatore. I paesi più poveri chiedevano più investimenti per l’adattamento ed il trasferimento di tecnologia, ma l’accordo parla vagamente di un impegno a raggiungere i 100 miliardi di dollari entro il 2020, rigorosamente senza garanzie. Per quanto riguarda i tagli alle emissioni, l’accordo lascia ai singoli paesi la possibilità di scegliere i propri target (contro la proposta di creare standard condivisi), anche se prevede che si debbano (non si sa quando) sviluppare metodologie efficienti per la verifica delle riduzioni dirette e, soprattutto, indirette (cioè quelle consentite attraverso procedure di offsetting, clean development mechanisms, joint implementations e la protezione delle foreste, il cosiddetto REDD+).
Il summit di Copenhagen non è stato semplicemente una conferenza sul clima. In realtà si è trattato di un catalizzatore di tutte quelle tensioni e frustrazioni che ormai da anni dilaniano la comunità internazionale, soprattutto la morente governance globale. La giustizia sociale, la mancanza di rappresentatività delle istituzioni globali, lo squilibrio dei poteri tra nord e sud globale, la cooperazione tra potenze emergenti, sono tutti temi che hanno trovato in Copenhagen un nuovo ‘megafono globale’. Non è un caso, infatti, che siano stati proprio Cina, Brasile, India e Sudafrica a farla da padroni. La loro titolarità è stata confermata anche dall’accettazione dell’accordo da parte dell’Unione Africana, nonostante le richieste dei paesi più poveri siano state pressoché accantonate.
Dal punto di vista geostrategico, Copenhagen ha anche confermato la crescente irrilevanza dell’Europa nella politica internazionale. Nonostante si trattasse dei padroni di casa, le delegazioni europee sono alla fine rimaste in un angolo, incapaci di assumere un ruolo di leadership e creare le condizioni, sia economiche sia tecnologiche, per arrivare ad un accordo. Le offerte economiche dei principali paesi del Ue, i proclami dei capi di stato e dei rappresentanti della Commissione europea, che chiedevano un accordo vincolante, sono caduti nel vuoto. La ragione fondamentale di questo insuccesso è da ascriversi all’incapacità dell’Europa di fornire garanzie e, soprattutto, investimenti perché i paesi più poveri e le economie emergenti decidessero di assumersi una responsabilità diretta nella riduzione delle emissioni. Nonostante sia l’Europa a possedere le politiche di riduzione di CO2 più avanzate del mondo (anche se insufficienti), è stato proprio il vecchio continente a diventare l’obiettivo diretto dei paesi poveri in riferimento al debito climatico. Molto più degli USA, che resta pur sempre uno dei maggiori responsabile per la crescita di gas serra nell’atmosfera.
Ad un’Europa superata a destra e sinistra da falchi e colombe resterà forse il prestigio di aver puntato, senza le giuste credenziali, ad un accordo impossibile. Più di tutto, però, Copenhagen passerà alla storia come il compimento di un processo di relativizzazione del peso europeo nel mondo che è ormai in corso da quasi un decennio. Le risorse dell’Europa sono notevoli, ovviamente, e potrebbero fornire un impulso importante per riattivare i negoziati nei prossimi mesi e portare all’adozione di un accordo coraggioso e vincolante entro il 2010. Ma, probabilmente, i paesi europei non lo faranno, continuando a giocare di rimessa. Perché almeno, in questo gioco delle parti, le élite europee possano mettersi a posto la coscienza senza doversi mai mettere davvero in gioco.
Per una bozza dell’Accordo di Copenhagen, si veda: http://unfccc.int/resource/docs/2009/cop15/eng/l07.pdf
L’autore è promote della campagna Global Reboot, resettiamo il sistema (www.globalreboot.org)