La crisi lascerà un’economia reale più povera e polarizzata. Ma le alternative ci sono: le politiche industriali e per l’innovazione vanno reinventate
Il tasso di disoccupazione al 10 per cento negli Stati Uniti e in molti paesi europei mostra quanto sia ancora grave la crisi. Quale sarà il volto dell’economia reale, delle strutture produttive, dopo la fine della recessione? I protagonisti – le grandi imprese – hanno licenziato, chiuso impianti e trasferito produzioni all’estero, hanno tagliato investimenti e ricerca, aperto la caccia alle acquisizioni di imprese in difficoltà, concentrato le attività nei centri produttivi maggiori e nei settori del core business. Queste strategie, nell’industria come nei servizi, creano ostacoli alla ripresa e mettono in pericolo le economie locali, le reti di subfornitura, l’occupazione e i redditi.
Si tratta di problemi comuni ai paesi europei, ma che sono particolarmente seri per gli anelli più deboli delle catene produttive, come l’Italia, dove da dieci anni la produttività del lavoro è ferma. Ad aggiornare quest’immagine ci sono i nuovi dati Istat “Misure di produttività” che registrano, dopo variazioni del -0,3 per cento in media tra il 2000 e il 2004, un +0,2 per cento tra il 2004 e il 2008: i livelli di produttività del lavoro sono sostanzialmente fermi a quelli di dieci anni fa, e la crisi farà scivolare più in basso i dati del 2009. Tutto questo a fronte di tassi di crescita ben più sostenuti non solo nei nuovi paesi industriali, ma anche nei vecchi paesi del Nord Europa e in Germania.
Il “decennio perduto” della produttività italiana è il risultato della scelta di lasciar fare alle imprese (o ai “miracoli” dei distretti), confidando che decisioni individuali di mercato potessero assicurare non solo maggior efficienza di breve periodo nell’allocazione delle risorse, ma anche sagge scelte di lungo termine nello sviluppo di nuove tecnologie, investimenti e produzioni. Le politiche industriali e dell’innovazione – che avevano avuto un ruolo centrale nello sviluppo dell’Europa del dopoguerra – sono state dimenticate, travolte dal “pensiero unico” liberista. Il risultato è stato soltanto il declino industriale. L’Italia, e buona parte dell’Europa, si ritrovano su traiettorie tecnologiche tradizionali, con vecchi prodotti, scarsa ricerca e innovazione, una bassa dinamica della domanda e un pesante impatto ambientale delle produzioni.
Le decisioni sul futuro della struttura produttiva italiana ed europea devono essere riportate all’interno della sfera pubblica. Una nuova generazione di politiche può superare i “fallimenti” del passato – le pratiche collusive tra potere economico e politico, la burocrazia, la mancanza di trasparenza e capacità di assumere rischi – e introdurre interventi creativi e selettivi. I meccanismi di decisione sulle priorità per l’uso di risorse pubbliche devono essere più democratici, saper includere interessi sociali diversi e aprirsi alle voci della società civile e del sindacato. Si devono realizzare nuove istituzioni, soggetti e regole di funzionamento che assicurino efficienza ed efficacia nella realizzazione delle politiche.
Gli obiettivi delle politiche industriali e dell’innovazione dovrebbero favorire lo sviluppo di conoscenze, tecnologie e attività economiche che migliorino le prestazioni economiche, le condizioni sociali e la sostenibilità ambientale. Dovrebbero favorire attività e settori caratterizzati da processi di apprendimento, rapido cambiamento tecnologico e forte crescita di domanda e produttività. Un elenco preliminare delle attività da privilegiare può comprendere la conoscenza, l’informazione e comunicazione, l’ambiente e le energie rinnovabili, la salute e il welfare.
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