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Pace: idee, storie, strumenti

‘Pace’ è il tema dell’ultimo numero della rivista ‘Parole-chiave’, che offre una serie di contributi sui concetti di fondo – da Kant a Capitini e Gandhi -, una ricostruzione della storia del pacifismo in Italia, e alcuni strumenti per affrontare gli interrogativi posti dalla guerra in Ucraina.

Il fascicolo di “Parole-chiave” dedicato al termine “Pace” nasce dallo sgomento per la guerra in Ucraina e dall’esigenza di una riflessione su quanto la cultura democratica abbia fatto e si proponga di fare per difendere e garantire la pace. L’approfondimento concettuale sulla parola scelta cede perciò il passo a pagine in cui Luigi Ferrajoli, dopo aver brevemente delineato la situazione attuale, indica nel progetto di una “Costituzione della Terra” un’alternativa concreta per promuovere la pace planetaria con la previsione di garanzie costituzionali capaci di assicurare «l’uguaglianza di tutti gli esseri umani in dignità e diritti». Una proposta che può forse non essere appieno condivisa ma che ha l’indubbio merito di sottolineare l’improcrastinabilità di una risposta comune, da parte della sinistra, alla domanda sul “che fare?” a proposito dei venti di guerra che spirano sempre più forti.

La sezione del volume dedicata alle interpretazioni si apre con due letture ancor oggi “necessarie” per poter affrontare il tema della pace. Stefano Petrucciani ricostruisce il pensiero kantiano sulla pace a partire dal famoso saggio “Per la pace perpetua” (1795), per poi seguire gli sviluppi teorici di ispirazione kantiana nei lavori di Rawls e di Habermas. Petrucciani rileva infine come per Kant il fine di una pace stabile e duratura non sia un sogno illusorio ma un dovere morale e, per esser tale, debba necessariamente essere considerato possibile e realizzabile. Carlo Nitsch discute il ruolo assegnato alla pace all’interno della “Dottrina pura del diritto” di Hans Kelsen, un ruolo problematico e, a prima vista, di difficile decifrazione, poiché l’opinione kelseniana che «il diritto è, essenzialmente, un ordinamento per la promozione della pace» deve convivere con una definizione del diritto in termini sanzionatori, ovvero poggiante sulla centralità del fattore coattivo. Può essere d’aiuto, per trovare la difficile soluzione, accompagnare la lunga evoluzione del pensiero kelseniano attraverso la costituzione dell’ordinamento giuridico internazionale e l’emersione concettuale di un terzo elemento nel rapporto tra diritto e pace: la sicurezza collettiva. Tommaso Greco muove una forte critica al modello conflittualistico di origine hobbesiana che, vedendo nella guerra la condizione “naturale” degli esseri umani, considera la pace solo come un momento di “assenza di guerra”. Greco, riallacciandosi ad un modello socio-antropologico cooperativo e solidaristico, parla di un senso originario della pace – da non confondersi con altri seppur nobili valori, come la giustizia – su cui fondare un pacifismo, inscritto in un circolo fiduciario, base di ogni diritto inviolabile e dello stesso dovere di pace.

In questa direzione sembra particolarmente appropriato ricordare Aldo Capitini, al cui originale pacifismo Gabriele Rigano dedica il contributo di chiusura della sezione. La biografia di Capitini si evolve da un antifascismo religioso e anticlericale verso un sincretismo nelle forme di una “religione aperta” dove confluiscono «le più diverse sollecitazioni religiose offertegli dalla storia spirituale dell’umanità». Tra queste sollecitazioni, provenienti tanto dal mondo occidentale quanto da quello orientale, Capitini si mostra sensibile – come mostra Rigano – soprattutto ai messaggi di pace e non violenza di Francesco di Assisi e di Gandhi.

Nella sezione dedidata a “i modelli” Agostino Giovagnoli ci offre un quadro d’insieme dell’atteggiamento della Chiesa cattolica verso la pace nel “lungo Novecento”, dalla Prima guerra mondiale ad oggi, ponendo in risalto gli intrecci tra l’azione della Chiesa e i mutamenti radicali intervenuti nel corso della storia. In tale quadro assume grande importanza il ridimensionamento crescente, seppur contrastato da resistenze tradizionaliste e sussulti nazionalisti, della visione intransigente della “guerra giusta” per coltivare una domanda di pace, dove la condanna della guerra come “inutile strage” (Benedetto xv) si unisca alla ricerca di un dialogo tra gli “uomini di buona volontà” e di un “incontro tra civiltà”. In questa direzione Giovagnoli ricorda, accanto al magistero dei singoli papi, l’apporto di uomini come Luigi Sturzo e Giorgio La Pira. 

Nel secondo scritto della sezione, Gaetano Azzariti formula una “sorta di assioma” da cui partire tanto nella lettura del presente quanto nel fissare la rotta per il futuro: «In guerra il diritto tace, ma per ristabilire la pace deve parlare il diritto». La guerra è sempre illegittima. La via della pace non può che essere imposta attraverso il diritto. Ciò dovrebbe condurre, per Azzariti, alla proposta di una conferenza internazionale per garantire la pace e la sicurezza tra le Nazioni, sull’esempio della Conferenza di Helsinki. La storia stessa ci indica nella “via dei trattati” la retta strada per la costruzione di un futuro multipolare, oltre le logiche di potenza. Anche Luisa Boccia va oltre il conflitto attuale. Rifiutare la guerra non vuol dire accontentarsi di una tregua ma comporta l’estirpazione delle radici profonde della guerra, il solo modo, veramente e non retoricamente “realistico”, per impedirne il ritorno «in forme sempre più distruttive e pervasive, fino a mettere a rischio la vita della specie e del pianeta». La riflessione femminista sulla guerra denuncia i valori e i miti della civiltà patriarcale che legittimano la guerra e danno alimento alle sue radici. Boccia, richiamandosi al pensiero di Simone Weil e Hannah Arendt, ricostruisce un punto di vista femminista sulla guerra che privi l’uomo della complicità femminile nella costruzione del modello educativo “virile” e contempli il ricorso a pratiche non violente di resistenza, in cui si esprima «la potenza delle alleanze di corpi e pensieri». 

La sezione si chiude con lo scritto di Elisa Piras e Francesco Strazzari che delineano lo statuto teorico della peace research, citandone le più significative esperienze ed espressioni a partire dal secondo conflitto mondiale fino ai nostri giorni, con particolare attenzione al pensiero di Johan Galtung, lo studioso forse maggiormente influente nell’ambito di questo indirizzo. Il limite del pacifismo ideologico e dogmatico di inseguire spesso una pace a tutti i costi, trascurando la necessaria complementarità di pace e giustizia, può, secondo Piras e Strazzari, trovare una necessaria correzione con il ricorso «all’esperienza di ricerca e di sperimentazione di pratiche di mediazione e trasformazione dei conflitti che è nota come peace research». La peace research, attraverso un’analisi interdisciplinare e multilivello, pone uno sguardo attento alle condizioni e alle aspettative di tutti i soggetti impegnati nella dinamica conflittuale, svincolando lo studio delle relazioni internazionali da un’impostazione meramente Stato-centrica. In questo contesto di “pace sostenibile”, un importante punto di riferimento è rappresentato dal Rapporto Common Security 2022, che «sostituisce l’idea di deterrenza nucleare con quella di un ingaggio positivo sui temi della sicurezza globale».

La sezione dedicata a “Le storie, i luoghi” comprende contributi dedicati a fornire una ricostruzione unitaria del pacifismo e dei movimenti pacifisti a livello nazionale (Italia e Russia) e internazionale. In apertura della sezione, Luciana Castellina rivive, da partecipante e da protagonista, le varie fasi del pacifismo del secondo dopoguerra: gli inizi come “partigiani della pace”; la mobilitazione, di vasto respiro europeo, degli anni Ottanta, in cui la lotta per la pace prese ufficialmente la forma di movimento pacifista; l’apertura nei primi anni del nuovo secolo di un nuovo fronte contro la globalizzazione neoliberista; il declino del movimento. Una storia punteggiata, per Castellina, da “distrazioni” del movimento verso svolte storiche da affrontare con consapevolezza della gravità degli eventi e “incomprensioni” da parte dei partiti della sinistra. Di fatto, processi di lungo periodo che un comunismo critico avrebbe dovuto denunciare sono passati sotto silenzio e anche ciò deve essere oggetto di riflessione per una possibile riparazione all’“attuale disastro”. 

Sulla stessa lunghezza d’onda di Castellina, Mario Pianta dà una ricostruzione analitica del movimento per la pace in Italia, concentrando la propria attenzione soprattutto sul periodo degli anni Ottanta e su quello degli anni Novanta, muovendo da quattro prospettive specifiche: il contesto, valori e identità, le mobilitazioni e, infine, l’impatto. Al termine di questa disamina, Pianta isola tre aspetti di fondo del pacifismo italiano, in parte comuni alle esperienze del pacifismo in altri paesi. Il primo aspetto consiste in un approccio alla politica, fondato su valori e principi di portata universali, non comprimibile in limitate dimensioni istituzionali statalistiche: «i movimenti hanno portato a una visione della politica come partecipazione, fondata sull’etica della responsabilità». Il secondo aspetto consiste nell’affermazione dell’autonomia della società civile rispetto alla sfera politica del potere statale e alle mediazioni dei partiti, incrementando un’attività di deliberazioni comuni e pratiche dal basso. Il terzo ed ultimo aspetto consiste nella «ricerca di istituzioni globali e di politiche transnazionali diverse che possano essere realizzate dalle autorità esistenti». 

Giulio Marcon, anch’egli in una linea di continuità con i precedenti contributi, contestualizza il ruolo del pacifismo degli anni Novanta in una situazione caratterizzata da tre fattori: la nuova situazione nell’Europa dell’Est dopo la caduta del Muro di Berlino; lo scoppio di nuove guerre etniche e nazionaliste; l’assenza per tutto un decennio di un nuovo chiaro equilibrio post-bipolare. Ciò determina l’emersione di culture politiche differenziate all’interno del movimento pacifista, le quali presentano, accanto alla persistenza di elementi tradizionali (il pacifismo ideologico, il pacifismo del disarmo e il pacifismo non violento) i volti nuovi di un pacifismo concreto e di un pacifismo delle istituzioni internazionali, ovvero un modo meno semplicistico, dogmatico e astratto «di rapportarsi con la  realtà della guerra» e più attivo nell’intraprendere iniziative di solidarietà concreta e di promozione della pace a livello planetario. Gli anni Duemila vedono con l’11 settembre e con la guerra in Iraq del 2003 il formarsi di uno spartiacque per il pacifismo europeo e mondiale, chiamato a fronteggiare eventi drammatici e sfide complesse. La risposta pacifista si realizza con la convergenza tra movimenti pacifisti e movimenti sociali globali che riesce a produrre un’ampia mobilitazione contro la globalizzazione neoliberista, legata però più all’emergenza dei singoli momenti e meno capace «di costruire un progetto di più lungo periodo in grado di consolidare la convergenza tra soggetti sociali e movimenti a scala mondiale». Da qui un bilancio in chiaroscuro, secondo Marcon, dell’impatto esercitato dal pacifismo in questi ultimi anni. 

In chiusura della sezione, Maria Chiara Franceschelli spiega le ragioni dell’assenza in Russia di un movimento di massa in grado di accogliere le istanze popolari contro la guerra, ragioni riconducibili alla strategia putiniana di smantellamento e repressione delle organizzazioni della società civile e all’«assenza di una tradizione eminentemente pacifista all’interno della Russia contemporanea». Le stesse manifestazioni di protesta contro l’invasione russa non sono, infatti, animate da uno spirito pacifista contro la guerra, esaurendosi piuttosto in una specifica avversione «contro la guerra di Putin in Ucraina». Istanze pacifiste possono ritrovarsi, per Franceschelli, solo in ambienti marginali della società civile russa, ad eccezione del “pacifismo consapevole” espresso dal network Resistenza femminista contro la guerra, che unisce gruppi femministi di tutta la Russia.

Il numero si conclude riproponendo, in Archivio, ai lettori la, ormai classica, introduzione di Giuliano Pontara a Teoria e pratica della nonviolenza di Gandhi e le sconvolgenti pagine di Edward P. Thompson sul “sistema dello sterminio” come esito della strutturazione della società odierna.

Questo testo è ripreso dalla ‘Presentazione’ del numero di Parole-chiave dedicato a ‘Pace’ (n.8, 2022, Carocci editore, https://www.carocci.it/prodotto/parolechiave-2)

Il numero di Parole-chiave è stato presentato il 5 aprile 2023 alla Fondazione Basso con interventi di Daniele Archibugi, Nicoletta Dentico, Martin Koehler e diversi autori. Il video dell’incontro è disponibile al sito https://www.youtube.com/watch?v=qcEKzq6VlCA