Dal 1980 la media dell’orario di lavoro è dappertutto aumentata, dagli Stati Uniti all’Italia o, al massimo, è ferma da almeno 40 anni.«Lavorare meno, vivere meglio», di Fausto Durante edito da Futura ipotizza altre strade.
«Se 8 ore vi sembran poche venite voi a lavorar». Così cominciava la canzone che le prime operaie venete si inventarono agli esordi del movimento sindacale. Sarebbe ora di riesumare quel verso – che inveiva anche contro «il padrone dalle belle braghe bianche» – e riproporlo a tutte le manifestazioni. Perché, assaliti da tutte le deregolamentazioni che hanno e continuano ad affossare tante conquiste del passato – contratti regolari innanzitutto – dell’orario si è finito per non parlare più. O meglio, la questione è diventata paradossale: della riduzione dell’orario – addirittura 4 giorni lavorativi e 32 o 34 ore anziché 40 – si parla molto, ma solo quando si citano questa o quella presidente nordica, non a caso generalmente donne (la finlandese Sanna Marin, la scozzese Nicole Sturgon, la Neozelandese Jacinta Ardern ) che propongono queste «stravaganze». Cui subito sociologi e psicologi di fama mondiale fanno eco, dimostrando che, se l’orario di lavoro è più umano, si aumenta la produttività (e quindi anche il profitto può salvarsi). E invece trovarne traccia nelle piattaforme rivendicative delle contrattazioni in corso è raro.
E dunque evviva Fausto Durante che – anche grazie alla conoscenza del mondo acquisita durante il periodo in cui è stato responsabile per i rapporti internazionali della Cgil – ha ora riproposto la questione in un suo prezioso libretto: Lavorare meno, vivere meglio (Edizioni Futura, pp. 104, euro 12).
È infatti bene sapere che dall’80 in poi la media dell’orario di lavoro è dappertutto aumentata, dagli Stati Uniti all’Italia: tutti i dati confermano che la durata del lavoro è cresciuta ovunque, o, al massimo, è ferma da almeno 40 anni. 1980, questa è la data che ricorre ogni volta che si lamenta un guaio, qualsiasi sia l’aspetto del lavoro che si affronta. Perché è quella che segna l’inizio della controffensiva conservatrice, l’inizio della deregulation, paladini Reagan e Thatcher, l’anno per noi nefasto della sconfitta alla Fiat. La data in cui la prima grande crisi del dopoguerra – quella petrolifera del ’73- induce la riscossa della destra in tutto il mondo. L’anno in cui col suo manifesto di Tokio, la Tricontinental (Usa, Giappone, Europa), proclama che ci sono state toppe lotte dagli anni ’60 in poi e che il sistema non se lo può permettere, non può più sopportare l’ascesa dei grandi movimenti cresciuti ovunque dopo il ’68 e che dunque l’ economia non può più essere affidata alla politica, cioè alla democrazia, ma deve esser lasciata agli «specialisti», come è noto «neutrali».
E’ sempre da quell’anno maledetto che – ci documenta Fausto Durante – si assiste a un gigantesco spostamento della ricchezza dal lavoro al capitale, che il Pil degli Stati uniti (al netto dell’inflazione), tanto per fare l’esempio più clamoroso, è triplicato mentre il 60 per cento dei salari sono rimasti invariati o sono calati.
È il passaggio storico che ha innescato una crisi del capitalismo di cui oggi viviamo una fase ulteriormente aggravata, quando ha cominciato a divaricarsi sempre più la curva della crescita da quella del progresso, inteso come maggiore benessere per tutti. La fine del sogno socialdemocratico di poter contare su margini sempre più ampi per poter sostenere facilmente il compromesso sociale.
In questi ultimi anni le cose non hanno fatto che aggravarsi, come sappiamo. Mai avrei pensato che si sarebbe tornati a parlare, come invece è accaduto con il Covid e ora si continua, di lavoro a domicilio, la micidiale condizione di tante donne contro cui abbiamo combattuto negli anni ’50, quando questa forma di lavoro generalizzata nel settore dell’occupazione femminile aveva reso invisibile il confine fra ozio e lavoro, un vero cottimo estremo cui oggi si rischia di tornare anche nei nuovi, precari settori comandati dagli algoritmi. Perché l’intelligenza artificiale fa sparire la fabbrica, estende il numero delle imprese che non hanno quasi più dipendenti diretti, nasconde le controparti con cui bisogna prendersela. La riduzione del tempo di lavoro – scrive Landini nella prefazione al libro di Durante – può essere utile a tutti, perché riapre la prospettiva di un mutamento più complessivo della nostra società, ripropone una riflessione su come produrre, cosa e per chi, ci indica come rispondere al dramma ecologico ma anche alla domanda inevasa di servizi indispensabili a rendere migliore la qualità della nostra vita. La redistribuzione degli orari di lavoro può essere utile a tutti perché valorizza attività sociali collettive e dunque anche nuove relazioni sociali.
Se si pensa agli orari di lavoro che si allungano mentre lo sviluppo tecnologico consentirebbe di ridurli enormemente ci si rende conto fino in fondo della micidiale irrazionalità del capitalismo. Oggi la scienza ci fornisce l’insperata possibilità di ridurre al minimo il lavoro necessario alla sopravvivenza, quello che era invece faticosissimo anche solo fino a qualche secolo fa. Potremmo liberarci della schiavitù moderna – il lavoro salariato – e invece siamo obbligati ad avvelenarci la vita. Se non reagiamo in tempo sarà persino molto peggio: le ultime previsioni ci dicono che se nel corso del XX secolo lo sviluppo tecnologico ha ridotto l’occupazione tradizionale del 15 per cento quello del secolo in corso, il XXI , è destinato a ridurlo del 75 per cento. Come sarà ripartito questo enorme possibile vantaggio per l’umanità? Un 25 per cento di straricchi che controllano gli algoritmi e una vandea di servi precari addetti al loro servizio, un esercito di badanti: rider, camerieri, lava piatti, spazzini. Non credete che ce n’è abbastanza per accelerare la rivoluzione?
Pubblicato da il manifesto del 15 novembre 2022.