Il paradigma neoliberista è sempre in auge, nonostante i suoi evidenti, ripetuti fallimenti. L’Europa è prigioniera della trappola che si è costruita. Dipende ogni giorno di più dalla finanza internazionale che contribuisce ogni giorno ad alimentare. È necessario porvi rimedio prima che sia troppo tardi.
La ripresa economica mondiale, resa possibile da massicce iniezioni di spesa pubblica nell’economia, è fragile ma reale.
Un continente è rimasto indietro, l’Europa. Ritrovare di nuovo la strada della crescita non rappresenta più una sua priorità. L’Europa ha scelto un’altra strada: la lotta contro i deficit pubblici.
Nell’Unione europea, i deficit sono certamente alti – 7% in media nel 2010 – ma minori dell’11% degli Stati uniti. Mentre i singoli stati statunitensi, il cui peso economico è maggiore di quello della Grecia (come la California), sono virtualmente in bancarotta, i mercati finanziari hanno deciso di speculare sul debito sovrano dei paesi europei, concentrandosi su quello dei paesi del sud. L’Europa si trova di fatto imprigionata nella trappola istituzionale che essa stessa ha creato: gli stati devono ricorrere ai prestiti delle istituzioni finanziarie private che ottengono liquidità a basso costo direttamente dalla Banca centrale europea; in questo modo, i mercati detengono le chiavi del finanziamento degli stati, mentre la mancanza di una rete di solidarietà dei paesi europei dà origine alla speculazione, tanto più in quanto il gioco delle agenzie di rating accentua la sfiducia.
C’è voluto l’abbassamento del rating della Grecia da parte dell’agenzia Moody’s nel giugno 2010 a spingere i leader europei a usare di nuovo il termine “irrazionale”, un termine che essi avevano frequentemente utilizzato all’inizio della crisi dei subprime. In modo simile, ci stiamo accorgendo che la Spagna è minacciata molto più dalla fragilità del suo modello di crescita e del suo sistema bancario che dal livello del suo debito pubblico.
Al fine di “rassicurare i mercati” si è improvvisato un fondo di stabilizzazione per l’euro, mentre piani di tagli alla spesa pubblica tanto drastici quanto indiscriminati sono stati varati in tutta Europa. Il numero di dipendenti pubblici è diminuito ovunque, minacciando la tenuta stessa dei servizi prestati alla collettività. Le prestazioni della previdenza sociale sono state ridotte duramente mentre il livello della disoccupazione e la mancanza della sicurezza del posto di lavoro sono destinati ad aumentare nei prossimi anni. Queste misure sono irresponsabili non solo da un punto di vista politico e sociale, ma anche in termini strettamente economici: esse hanno temporaneamente frenato la speculazione, ma hanno generato conseguenze sociali negative in numerosi paesi europei, specialmente nei confronti dei giovani, dei lavoratori e delle persone più deboli; esse finiranno per alimentare tensioni in Europa, minacciandone così la costruzione stessa, che è molto di più di un progetto economico. L’economia dovrebbe favorire la costruzione di un continente democratico, pacifico e unito. Invece, una sorta di dittatura del mercato si è imposta ovunque, oggi in modo particolare in Portogallo, Spagna e Grecia, tre paesi che solo 40 anni fa, nei primi anni ’70, si trovavano ancora sotto regimi dittatoriali.
Sia che venga interpretato come “desiderio di rassicurare i mercati” da parte di governi impauriti, sia che venga visto come un pretesto per imporre scelte guidate dall’ideologia, la sottomissione a questa dittatura non è accettabile, essendo ormai provata la sua inefficienza economica e il suo potenziale distruttivo, sia da un punto di vista politico che sociale. È necessario aprire un vero dibattito democratico sulle scelte di politica economica: molti degli economisti che partecipano a dibattiti pubblici lo fanno con il fine di giustificare o razionalizzare la sottomissione delle politiche alle esigenze dei mercati finanziari. È vero che i governi hanno dovuto improvvisare programmi di stimolo keynesiani e in alcuni casi si sono trovati a nazionalizzare le banche in via temporanea. Essi però hanno intenzione di chiudere velocemente questa parentesi.
Il paradigma neoliberista è ancora l’unico a essere riconosciuto come legittimo, nonostante i suoi evidenti fallimenti. Basato sul presupposto di mercati dei capitali efficienti, esso invoca la riduzione della spesa degli stati, la privatizzazione dei servizi pubblici, l’aumento della flessibilità del mercato del lavoro, la liberalizzazione del commercio, dei servizi finanziari e dei mercati dei capitali, l’aumento del livello della concorrenza in tutti i casi e in ogni luogo.
Come economisti, siamo sgomenti nell’osservare che queste politiche siano ancora nell’agenda dei governi e che le loro basi teoriche non siano state ancora messe in discussione. Gli argomenti avanzati da trent’anni a questa parte per guidare le scelte di politica economica dell’Europa sono stati scalzati dagli eventi. La crisi ha messo a nudo la natura dogmatica e infondata di false certezze ripetute ad nauseam dai governanti e dai loro consiglieri. Che si faccia riferimento all’efficienza e alla razionalità dei mercati finanziari o alla necessità di tagliare la spesa pubblica per ridurre il debito o per rafforzare il Patto di stabilità, è necessario mettere in discussione queste false certezze e illustrare la pluralità delle scelte di politica economica: altre scelte sono possibili e desiderabili, a patto che venga allentata la morsa della finanza sulle politiche pubbliche.
In queste pagine, vogliamo offrire un’analisi critica delle dieci premesse che quotidianamente ispirano le decisioni delle autorità pubbliche in tutta Europa, nonostante siano state smentite dalla crisi finanziaria. Ci sono false certezze che nascondono in realtà misure ingiuste e inefficaci, contro le quali indichiamo 22 controproposte che vorremmo mettere sul tavolo della discussione. Le singole proposte non sono necessariamente sostenute all’unanimità da tutte le persone che hanno sottoscritto il manifesto, ma ognuna deve essere presa in seria considerazione se si vuole guidare l’Europa fuori dal vicolo cieco in cui si è cacciata.
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