L’Eni vuole fare della ex piattaforma petrolifera a largo di Ravenna il più grande hub europeo per lo stoccaggio sottomarino di anidride carbonica. Un progetto inviso agli ambientalisti. Da Internazionale.
Una strada separa l’area industriale di Ravenna dalla pialassa, la laguna romagnola dove si mescolano acqua dolce e salmastra. Qua il petrolchimico, là i fenicotteri; di fronte il mare Adriatico con le piattaforme per l’estrazione del gas. E oggi tutto questo – il petrolchimico, la laguna, i pozzi off shore – è la scena di una battaglia che va ben oltre questa città romagnola: è in gioco come produrre e consumare energia in Italia nei decenni a venire. In concreto, come spendere i soldi destinati al rilancio del paese dopo la pandemia.
L’oggetto di questa battaglia ha un nome complicato: “Cattura e stoccaggio di carbonio”, abbreviato in Ccs. È un sistema per captare i fumi emessi da impianti industriali, separare l’anidride carbonica da altri gas, convogliarla in un impianto di raccolta, infine iniettarla nei giacimenti di idrocarburi ormai esauriti che si trovano di fronte alla costa adriatica. A proporlo è l’Eni, che lo descrive in termini avveniristici: una soluzione per intrappolare uno dei principali gas “di serra” responsabili del cambiamento climatico e impedire che si accumuli nell’atmosfera.
Nelle intenzioni della multinazionale italiana quello di Ravenna sarà il più grande impianto del genere in Europa, e un “hub” per il sud Europa e il Mediterraneo. L’Eni afferma che costerà circa due miliardi di euro, e per realizzarlo cerca finanziamenti pubblici. Per questo il progetto è candidato ai bandi del Fondo europeo per l’innovazione e soprattutto al piano nazionale di ripresa e resilienza, spesso indicato come recovery fund: circa 209 miliardi di euro di cui il 37 per cento sarà destinato alla “transizione ecologica” per combattere il cambiamento del clima.