Post-liberismo/È necessario aumentare i redditi. E per far questo è fondamentale il ruolo dei sindacati, come ha riconosciuto anche il Fmi. L’Europa non ha appreso la lezione (perdente) del Giappone
Nessun economista, a parte qualche appartenente alla scuola cosiddetta “austriaca”, si oppone al controllo centralizzato del tasso di interesse. Le banche centrali fanno proprio questo lavoro, come abbiamo visto nell’approfondimento sulla moneta. Se però un banchiere centrale avesse sostenuto, solo pochi anni fa, che è necessario un controllo centralizzato dei salari, sarebbe stato preso per matto. Eppure è quanto ha sostenuto – non esattamente con queste parole, ma il concetto è quello – il presidente della banca centrale del Giappone, Haruhiko Kuroda, in un incontro dei banchieri centrali a Jackson Hole nell’agosto del 2014.
Richiamando i quindici anni di deflazione che il Giappone ha vissuto a partire dalla metà degli anni novanta, Kuroda ha sostanzialmente spiegato che la Banca del Giappone ha cercato in ogni modo di combattere la deflazione, senza riuscirci, nonostante l’enorme aumento delle masse monetarie e i tassi di interesse a zero. Dagli anni novanta, dopo lo scoppio della grande bolla speculativa, lo shock che ha colpito la domanda aggregata ha innescato un circolo vizioso di depressione e deflazione, i cui effetti permangono ancora. Secondo Kuroda, le imprese giapponesi non sono state in grado di aumentare i prezzi a causa della carenza di domanda seguita allo scoppio della bolla speculativa. Per mantenere i margini, le imprese hanno tagliato le spese, in particolare il costo del lavoro, sia attraverso tagli salariali ai lavoratori precari che attraverso la cancellazione di quella che veniva chiamata “offensiva di primavera”, ovvero l’aumento dei salari concordato tra imprenditori e sindacati. E poiché le imprese si aspettano che i prezzi continuino a cadere, hanno fermato gli investimenti, preoccupate della riduzione dei flussi di cassa futuri. Con la caduta degli investimenti la domanda aggregata ha continuato a stagnare, rinforzando la pressione al ribasso sui prezzi, in un circolo vizioso: deflazione-bassi salari-bassi investimenti-bassa domanda-deflazione. In questo modo la deflazione è diventata permanente.
Quello che è accaduto al Giappone somiglia molto alla situazione europea, dove le imprese chiedono più flessibilità salariale per essere più competitive, e quindi premono per abbattere le garanzie legali alla stabilità del posto di lavoro (come l’articolo 18). Purtroppo però la lezione di Kuroda non è stata ancora recepita in Europa dal banchiere centrale e dai politici. Al contrario, l’insistenza sulle riforme strutturali è parti di una vera e propria campagna condotta da Merkel e Draghi. Sebbene il presidente della Bce sostenga di voler combattere la deflazione con ogni mezzo necessario, dall’altro lato premendo sulla flessibilità del mercato del lavoro e dei salari alimenta il processo di deflazione. E con esso la stessa stabilità dell’area euro. Infatti, la riduzione dei prezzi influisce sui flussi di cassa delle imprese e quindi sulla loro capacità di estinguere i debiti che non si riducono come i prezzi. E la riduzione dei salari mette in difficoltà i lavoratori, anch’essi spesso indebitati. Tutto ciò rischia di riverberarsi non solo sull’economia reale ma anche sui bilanci delle banche, che troveranno sempre più clienti in difficoltà con i pagamenti e che non riescono a disfarsi del fardello del proprio debito.
Come sottolineato da Paul De Grauwe (un economista tutt’altro che eterodosso) il debito è una variabile monetaria rigida, mentre il resto (salari, prezzi, occupazione) è flessibile. Ma questa flessibilità ha effetti avversi sulla capacità di ripagare il debito. Da ciò deriva che economie più flessibili possono trovarsi in difficoltà maggiori che economie più rigide. Per evitare che la deflazione da debiti (debt deflation) colpisca l’economia, serve qualcosa che la fermi: salari e prezzi rigidi. Ma anche più rigidità nel mercato del lavoro per impedire l’immediata contrazione dell’occupazione di fronte ad uno shock e un ampio welfare state che faccia da compensatore automatico.
Di primo acchito si potrebbe pensare che aumentare i salari induca le imprese a licenziare o almeno ad assumere meno lavoratori, poiché aumentano i costi. Ma vi sono varie argomentazioni che possono essere ascritte a favore dell’aumento dei salari durante una recessione. In primo luogo, l’aumento dei redditi da lavoro è uno stimolo ai consumi. In secondo luogo la migliore distribuzione del reddito è un’ancora di stabilità per il sistema economico. Ma è la sconfitta delle tendenze deflazionistiche l’obiettivo più immediato di politiche tese all’incremento dei salari monetari. Un aumento generalizzato dei salari, infatti, ha un immediato effetto sull’aumento dei prezzi, tanto più rilevante quanto più il mercato dei beni si allontana dall’ipotesi di concorrenza perfetta (non a caso Roosevelt adotto anche alcune misure pro-oligopolio). Un’inflazione sostenuta, e l’aspettativa di un aumento dei prezzi in futuro, agiscono a favore della ripresa, da un lato riducendo l’interesse reale sui debiti pregressi e dall’altro inducendo coloro che detengono scorte liquide (moneta) a spendere subito, per evitare la loro svalutazione, invece che posticipare investimenti e consumi. Inoltre l’aspettativa di domanda e prezzi futuri più alti è uno stimolo all’investimento.
Queste motivazioni a favore di un controllo centralizzato dei salari vanno ad aggiungersi all’esigenza di far crescere i salari allo stesso ritmo della produttività – qualcosa che la teoria economica dominante dà per scontato, ma che non lo è affatto nell’esperienza – in modo da dare ai lavoratori il potere d’acquisto necessario a mantenere la domanda aggregata senza dover ricorrere all’eccesso di indebitamento.
Il principale strumento per riuscire a garantire un controllo centralizzato dei salari ed un’equa distribuzione dei redditi sono i sindacati. Il Fondo monetario internazionale, in uno studio recente di Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron intitolato “Power from the People” ha messo in relazione il declino del numero dei lavoratori iscritti ai sindacati con la concentrazione dei redditi nelle mani delle classi sociali più ricche a partire dagli anni ottanta. E non a caso è proprio con la sconfitta dei sindacati nei paesi occidentali (con Reagan negli Stati Uniti, Margaret Thatcher nel Regno Unito e Bettino Craxi in Italia) che il divario tra produttività e salari è divenuto insostenibile. Rafforzare i sindacati significa, tra le altre cose, prevedere migliori leggi di rappresentanza e dare preminenza ai contratti nazionali. Ma questo oggi non basta. Occorrono leggi che proteggano anche chi oggi non può essere tutelato dal sindacato. Per questo è necessario istituire un salario minimo legale, che valga qualsiasi sia il contratto stipulato. Vanno disincentivati i contratti precari, perché il lavoratore non stabilizzato è più ricattabile e quindi accetta retribuzioni minori, ad esempio attraverso una “tassa per la precarietà” da applicare ai contratti diversi da quello a tempo indeterminato. Le tipologie contrattuali andrebbero poi ridotte e ricondotte in ogni caso al contratto di lavoro di categoria, in modo da ricomporre la frattura nel mondo del lavoro che vede contratti differenti per lo stesso lavoro. Insomma, occorre fare l’esatto contrario di quanto finora i governi di destra e della sinistra “riformista” hanno fatto. Certo, con gradualità, certo evitando shock improvvisi, certo accompagnando le imprese e i lavoratori nel percorso. Ma l’importante è invertire chiaramente e permanentemente la rotta, se non vogliamo un capitalismo sempre più instabile e generatore di disuguaglianze.