Come possiamo costruire in Italia una forza politica analoga a Syriza e Podemos? Iniziamo da una cornice che tenga insieme forze politiche e mobilitazioni sociali, una reinvenzione del Fronte popolare. Con cinque campagne: contro l’austerità e il Jobs act, per i diritti, la pace, l’ambiente
La durissima trattativa tra la Grecia e Berlino-Bruxelles ci ricorda quanto sia urgente rompere con l’Europa dell’austerità e aprire una politica di cambiamento. Ma ci ricorda anche quanto siamo in ritardo, in Italia, lungo questa strada. Sappiamo tutto di come in Grecia Syriza, la Coalizione della sinistra, sia stata capace di vincere le elezioni del gennaio scorso, aggregando intorno a un partito aperto alla società i movimenti e le esperienze di auto-organizzazione emerse dalla crisi. Sappiamo di come Podemos in Spagna abbia saputo trasformare la protesta degli indignados in una forza politica radicalmente nuova, che non vuole nemmeno usare la definizione di “sinistra” e che è ora arrivata in testa ai sondaggi del paese. Sappiamo che in Italia le lotte della Fiom e lo sciopero generale di Cgil e Uil del dicembre scorso hanno ridato rappresentanza e spazio a una protesta sociale troppo a lungo frammentata e soffocata in questi sette anni di crisi. Ora siamo in una nuova fase dell’offensiva del governo contro il lavoro, con i primi decreti attuativi del Jobs Act che ne peggiorano gli effetti – sino ai licenziamenti collettivi senza nessun diritto universale per i precari – e l’attacco vergognoso e strumentale di Matteo Renzi a Maurizio Landini sulla Fiat. Una novità importante è l’apertura da parte della Cgil a una mobilitazione che a partire da una legge di iniziativa popolare ricostruisca in modo partecipato e inclusivo lo statuto delle lavoratrici e dei lavoratori, fino alle necessarie azioni per cancellare le parti peggiori delle nuove leggi sul lavoro. Possiamo puntare a una moltiplicazione di mobilitazioni, vertenze locali e di categorie, intrecciate alle manifestazioni contro gli F35, lo Sblocca Italia, la Tav, le trivelle nell’Adriatico, le mafie, la crisi ambientale.
Sono segni di risveglio sociale, che tuttavia sono ancora frammentati, senza una cornice che trasformi le mobilitazioni in risposta politica. Sul piano sociale pesano anni di silenzi – con la Fiom spesso sola – e pesano movimenti che – almeno dopo la vittoria ai referendum contro la privatizzazione dell’acqua nel 2011 – sono stati incapaci di produrre egemonia. La società italiana ha reagito alla crisi piegandosi su se stessa, per difendere standard di vita e dignità individuali, usando le risorse economiche disponibili – i risparmi, le reti familiari – ma non le risorse politiche, un tempo così importanti in Italia, della solidarietà e della protesta fino alla proposta politica.
E sappiamo che la trasformazione politica introdotta da Matteo Renzi ha dato la “scalata” al governo del paese completando la mutazione genetica del Pd in un partito del leader, con le bandiere della governabilità a tutti i costi e una concezione agonistica della politica che privilegia la velocità delle decisioni al merito e alla rappresentanza dei soggetti sociali, senza mai esplicitare “a chi giova”. Matteo Renzi ha assunto buona parte del progetto berlusconiano e ne sta ereditato il blocco d’interessi – la finanza, la rendita, le imprese – abbandonando lavoratori e sindacato, scegliendo nella crisi i più forti. Ha aperto agli affaristi e smarrito le forme di partecipazione, dissolvendo così l’eredità socialdemocratica. Governa con il centro destra e trova oggi al suo interno, nel Pd, un’opposizione molto critica.
Questa trasformazione politica ha rotto l’orizzonte dell’alleanza di centro-sinistra che aveva caratterizzato il panorama italiano per vent’anni e che oggi può sopravvivere solo in qualche amministrazione locale o regione in cui il modello del “renzismo” fatica ad affermarsi. Quella rottura ha aperto un enorme spazio per la costruzione dell’ opposizione. La scelta di Sel di condurre una rigorosa opposizione al governo Renzi – compreso l’inganno degli 80 euro – e di contribuire alla nascita della Lista Tsipras alle europee è stata una svolta importante in questa direzione. Certo, nello spazio della protesta e dell’opposizione si sono lanciati in molti. In questi anni il successo del Movimento Cinque Stelle è stato un diversivo che ha dirottato energie e voti verso un populismo incapace di incidere sulla politica. E ora abbiamo la Lega di Matteo Salvini che imita il Front national francese con pericolose derive fasciste e razziste. Paradossalmente sono queste le forze che provano a intestarsi la rappresentanza popolare, la voce della protesta, la tutela degli esclusi.
La ricostruzione di una politica del cambiamento in Italia deve forse partire da qui, dalla capacità di parlare con le persone, stare tra la gente, interpretarne le inquietudini provocate dalla crisi e costruire un senso comune diverso, uscendo dall’individualismo e dall’ubriacatura del mercato di questi trent’anni liberisti. Serve innanzi tutto una politica che sia popolare, che costruisca un argine al populismo –a quello di Grillo e Salvini, come a quello “dall’alto” di Matteo Renzi.
L’espressione politica delle spinte sociali al cambiamento – sappiamo bene anche questo – è stata bloccata in Italia anche dalla frammentazione e dalle divisioni tra le forze politiche del paese – le varie opposizioni dentro il Pd, Sel, Rifondazione, l’esperienza importante ma non sviluppata appieno della Lista “Un’altra Europa con Tsipras” alle elezioni europee del 2015, la dispersione dei verdi tra Green Italy e altre organizzazioni. Le proposte più recenti – quella di Nichi Vendola a Human Factor, le iniziative di allargamento sociale e sindacale proposte dalla Fiom, la discussione proposta da Stefano Rodotà – sono segnali importanti di disponibilità a mettere in comune energie e progetto politico. Ma fanno fatica a convergere in una cornice comune, effettivamente condivisa, capace di diventare un nuovo soggetto di cambiamento. Quale può essere la “via italiana” a una politica del cambiamento che ci avvicini ai risultati di Syriza e Podemos?
La risposta dev’essere un processo di convergenza che coinvolga allo stesso tempo i comportamenti e il senso comune popolare, l’impegno delle organizzazioni sociali – sindacati e associazioni – e l’azione politica. Serve ricomporre la divisione che abbiamo ereditato tra “coalizione sociale” e “coalizione politica”, tra sinistra sociale e sinistra politica, senza scorciatoie leaderistiche. Syriza vince anche perché ha trasformato l’azione e le sedi di partito in una mensa dei poveri e in un ambulatorio per chi non può curarsi. Chi lavora nel sociale e nei movimenti deve avere la stessa dignità politica di chi sta nelle istituzioni o nelle strutture di partito. Le forme di organizzazione devono andare ben al di là del coordinamento tra leader politici e dar vita a una struttura che sappia accogliere – con pari dignità – tutti quelli che lavorano contro l’austerità, per i diritti, la solidarietà, l’ambiente.
Quello che può offrire una cornice a tutto questo è un nuovo modello di aggregazione politica e sociale: potremmo chiamarlo “Fronte Pop”. La cosa che gli assomiglia di più è il Fronte popolare che nell’Europa degli anni trenta resse l’urto dei fascismi e anticipava il progetto di welfare che si affermò poi nel dopoguerra. Ora un “Fronte Pop” – ma qualunque altro nome va bene – può offrire la convergenza necessaria per far sentire dentro lo stesso progetto di cambiamento chi vota contro Renzi in Parlamento e organizza la mensa della Caritas, l’ecologista che lavora alla prossima conferenza sul clima di Parigi e chi si oppone alle guerre intorno e dentro l’Europa, chi difende i diritti del lavoro e quelli dei migranti, chi organizza le partite Iva, le donne discriminate e i giovani senza futuro.
Questo percorso potrebbe nascere da una convenzione di tutte le organizzazioni, forze politiche, sindacati e gruppi di base che assumono un progetto comune di cambiamento e potrebbe essere guidato da un gruppo dirigente in cui siano rappresentate tutte le componenti. Chi vi partecipa mantiene la propria autonomia d’azione nei rispettivi ambiti di lavoro, ma si unisce in una forza di cambiamento della politica. Proprio come sono riuscite a fare – in forme diverse – Syriza e Podemos. E come si faceva alle origini del movimento socialista, con partito, sindacato, società di mutuo soccorso che erano espressioni su fronti diversi di una stessa identità collettiva.
Il “Fronte Pop” potrebbe muoversi e crescere sulle gambe di cinque campagne comuni a tutti. L’Europa da cambiare: fine dell’austerità, limiti alla finanza, le persone prima dei mercati, accoglienza dei migranti al posto del razzismo. Il lavoro da difendere e i diritti del lavoro da ricostruire: la lotta contro il Jobs Act di Renzi è appena iniziata. L’ambiente da salvare: non c’è più tempo se vogliamo evitare i danni irreversibili del cambiamento del clima. I diritti civili e il welfare: la scuola, la cittadinanza civile e sociale per tutte e per tutti. La pace da costruire: i conflitti si risolvono con la politica e non con le armi. Potrebbe essere un’agenda entusiasmante, non credete?