RenzItaly/Come si combatte la degenerazione della democrazia, che precede Renzi di 20 anni e si regge sul consenso implicito o esplicito di potenti tenuti insieme da una corazza ideologica condivisa, così forte da poter essere data per scontata e battezzata come fine delle ideologie
Il partito della nazione riproposto da Renzi – e purtroppo non tramontato con la dichiarata rottura del patto del Nazareno – e la frantumazione del Parlamento non sono in contrasto. Le due forme di degenerazione della democrazia descritte da Tocqueville un paio di secoli fa, il trionfo del demagogo e il “moto browniano”, il confuso agitarsi dei singoli, sono spesso complementari. È la mancanza di idee socialmente condivise, legate agli interessi di gruppi sociali e alle scelte etiche e culturali dei singoli, e di rappresentanti che esprimano gli uni e le altre – anziché la pura occupazione dello spazio politico da parte dei loro capi – a generare insieme il trionfo del demagogo e la frantumazione politica, a seconda delle fortune dei capi. Basta che un capo traballi e un altro trionfi perché le variegate schiere di servi si disgreghino e riaggreghino. Non hanno rappresentati cui rendere conto, coerenze da rispettare, prospettive diverse da realizzare; solo carriere da difendere.
Il partito della nazione, in effetti, precede Renzi di una ventina di anni almeno, e si regge sul consenso implicito o esplicito di istituzioni potenti, aziende potenti, alleati internazionali potenti, singoli ricchi e potenti, tenuti insieme da una corazza ideologica condivisa, così forte da poter essere data per scontata e battezzata come fine delle ideologie, o fine della storia: l’economia, intesa come ricchezza dei padroni, dei ricchi, è l’unica forza, l’unica dimensione che esista. Chi non riesce ad accaparrarsi una fetta degli avanzi, o dei rifiuti, o dei sottoprodotti dei ricchi, è fuori, ha violato le regole, non è necessario all’aumento della ricchezza dei ricchi e non merita attenzione. “Non c’è alternativa”, diceva Margaret Thatcher.
Renzi, oltre all’esplicito ritorno a slogan e atteggiamenti che erano rimasti appannaggio solo dell’estrema destra (ma come nostalgia, non come programma) ora un po’ messi in sordina, ha avuto la novità, il terribile vantaggio del non avere nessuno alla sua sinistra capace di elaborare e comunicare un messaggio politico. Se quello che era stato il partito del lavoro, in veste comunista o cristiana, dice che i lavoratori non meritano una rappresentanza propria perché li rappresentano abbastanza i padroni, il gioco per i ricchi è fatto. Il taglio della sanità pubblica e della scuola pubblica può proseguire; può proseguire, salvo attriti tra capi, la costruzione dello Stato azienda. È impressionante la mancanza di contenuti, di idee, della discussione politica, non solo in Parlamento, ma sui giornali. Si dice “riforme” senza neppure accennarne la natura o i fini, lasciamo stare le alternative. Il conflitto è sui regolamenti, sui tempi, sulla velocità (“il turbo”), non sulle alternative. Capisco che, dati i modi di elezione, passati e futuri, in Parlamento non ci sia molto spazio, ma il deserto della stampa, con minime e lodevoli eccezioni, è senza precedenti.
Negli ultimi mesi, dopo anni di brontolii, scosse di avvertimento, esplosioni – e centinaia di migliaia di morti, in paesi non lontani ma di cui evidentemente non ci importa nulla – la guerra è arrivata alle frontiere orientali e meridionali dell’Europa. Lasciando da parte le considerazioni sulle cause delle due guerre più vicine e sulle alternative, resta il fatto che la guerra incoraggia il partito della nazione, brucia gli spazi intermedi, può persino riportare nel partito unico gli ipernazionalisti, gli xenofobi, gli interventisti. Per un giorno abbiamo temuto che il Capo al momento vincente si mettesse in divisa, preludio alla sua fine, ma anche alla nostra sventura. Poi deve aver prevalso la convinzione che le guerre – che non bisognerebbe fare – se si fanno bisognerebbe anche vincerle, e che una guerra offensiva, cioè in territorio nemico, di occupazione, in Libia la si perde. Hanno perso guerre simili eserciti molto più forti del nostro e di quelli dei nostri possibili alleati. Senza contare i morti, l’imbarbarimento, i traumi.
Non ci liberemo del partito della nazione a spallate. Ci sono state risposte sociali, sindacali; c’è una risposta culturale, umana, solidale nei confronti dei profughi, dei poveri, degli stranieri, che ha una voce importante, ma non isolata, nell’attuale Papa; ci sono idee e mobilitazioni in difesa di singoli diritti. Dovremmo riuscire, a cominciare dalle idee e dal loro rapporto con gli interessi dei gruppi sociali più deboli, a trasformare le molte risorse che abbiamo in proposta politica. La solidarietà con i profughi, con i poveri, la pratica della collaborazione dove si rischia la guerra, sono un gradino della proposta politica. Il sostegno alla Grecia, il rifiuto della politica dei missili alle frontiere ne sono aspetti importanti. Una inversione di tendenza in senso pluralistico nelle riforme istituzionali, che può derivare anche da incidenti di percorso del partito unico, è insieme un mezzo e un fine. È difficile ma non è come volere la Luna.
Una versione più ampia di questo articolo sarà pubblicata sulla rivista Lo straniero