Nike/L’incredulità dei militanti dinanzi al risultato delle elezioni greche sta nell’aver portato a sinistra intere regioni ancorate alla reazione
Domenica sera, nel concludere il breve discorso di trionfo pronunciato dinanzi alla facciata neoclassica (e tedesca) dell’Università di Atene, il presidente di Syriza ha annunciato il ritorno nel cielo della Grecia del “sole della giustizia”. Il riferimento è dotto: inizia così, infatti (“Sole intellegibile della giustizia”), il brano più noto del Dignum est (Axion esti, 1959) del premio Nobel Odisseas Elitis, musicato da Mikis Theodorakis in una popolare canzone. La formula, in Elitis come in Tsipras, è propria del lessico liturgico, e sussume la definizione patristica del fulgore di Cristo per trasporla sul piano della storia del popolo greco, delle sue sofferenze lungo il Novecento, della pervicace eternità del suo spirito e del suo valore.
Non stupisca il riferimento “religioso” nel premier che ha per primo ha rifiutato il giuramento dinanzi all’arcivescovo di Atene (suscitando peraltro lo sdegno del predecessore Samaràs, che ha incredibilmente disertato la cerimonia del passaggio delle consegne): in un Paese sfiancato da anni di politiche ingiuste, si chiede al nuovo governo una nuova alba (non dorata), nella piena consapevolezza che i Greci possono contribuire alla marcia dell’Europa con un “socialismo misurato, armonico, che combini dolcemente la massa e il singolo, la necessità e la libertà, uno stato davvero liberale e un sistema economico socialista elastico e adatto al genio imprenditoriale della stirpe”: così scriveva nel gennaio di 70 anni fa, mentre la II guerra mondiale non era ancora finita, il grande scrittore Ghiorgos Theotokàs, che sognava la piena integrazione dell’elemento ellenico in un’Europa finalmente unita.
L’investitura conferita a Tsipras dal popolo greco ha dunque la caratura di una missione storica, le aspettative sono enormi. Syriza ha trionfato in tutti i collegi, con l’eccezione delle sole zone tradizionalmente più conservatrici del Paese, ovvero alcune province di confine di Tracia e Macedonia (Serres, Kastorià, Drama, e le zone dell’Evros più soggette all’immigrazione clandestina), l’isola più militarizzata dell’Egeo (Chio), e il corpaccione del Peloponneso (l’Arcadia, la Messenia e soprattutto la Laconia, l’unica circoscrizione in cui i neonazisti oltrepassano il 10%). In tutto il resto della Grecia il trionfo è stato indiscutibile, con punte ben oltre il 40% nelle roccaforti del Pireo, di Creta, Corfù, Zante, ma soprattutto con l’insperato recupero di distacchi che ancora alle politiche del 2012 parevano incolmabili: a nord Kavala e Flòrina, al centro Karditsa, la Tessaglia e la Focide, a est Prèveza e l’Acarnania, e poi il Dodecaneso (per non parlare di casi pazzeschi come la piccola circoscrizione settentrionale di Ròdopi, dove Syriza è passato dal 20 al 49%): queste rimonte erano state solo avviate alle Europee del 2014, e comunque non nelle proporzioni odierne.
Il guadagno complessivo in termini assoluti è stato di 600mila unità rispetto al voto di tre anni fa, addirittura di 700mila rispetto alle europee dell’anno scorso (e ovviamente non estendiamo il confronto alle politiche del 2009, perché quella – prima della crisi – era proprio un’altra era geologica). Non c’è dubbio che, a fronte di una sostanziale tenuta di Nea Dimokratía (che è andata addirittura molto meglio rispetto alle Europee), Tsipras abbia ricavato buona parte dei voti nuovi, e decisivi per la sua vittoria, dalla scomparsa dell’esitante Sinistra Democratica (Dimar, passata dal 6,26 allo 0,49%), a lungo alleata con i partiti di governo, e dal tracollo del Partito socialista (dal 12,2 al 4,7%), aggravato peraltro dalla scissione, alla vigilia del voto, dello sfortunato partitino di Ghiorgos Papandreou, il quale peraltro non ha superato la soglia del 3%.
Ma dinanzi a un terremoto politico di queste proporzioni, le spiegazioni tecniche sono insufficienti: l’incredulità dei militanti dinanzi al risultato sta nell’aver portato a sinistra intere regioni tradizionalmente ancorate alla reazione, nell’aver frenato in tutto il Paese lo slancio dei neonazisti, nell’aver concentrato ogni aurora di speranza in un unico progetto politico credibile, quello di Syriza. È come se d’un tratto, dopo anni di trojka, quella ittopàthia, quella sindrome della sconfitta che ha segnato in tutto il Dopoguerra i massimi intellettuali greci (la cosiddetta “generazione della sconfitta”, appunto, quella del filo spinato, delle deportazioni, delle torture), fosse svanita dinanzi al realizzarsi di una vittoria che si traduce in un vocabolario semplice ma fermo, e che ambisce a dare un senso profondo alla metapolítefsi (“cambio di regime”; ma nel termine c’è ovviamente anche polis) iniziata nel 1974 e troppo spesso tradita.
“Che te ne fai della vittoria? A che serve? E per quanto?” chiedeva angosciosamente un vecchio nell’inquietante Sala di riunioni di Ghiannis Ritsos (1979-81). Sarà dalle risposte che si giudicherà il governo Tsipras: per ora, il solo passo di aver convocato persone incensurate, non corrotte né compromesse con precedenti governi (senza dire del coraggio di dare la Sanità in mano a un non vedente, peraltro competentissimo, come Kurublìs), ha del rivoluzionario: è il più grande rinnovamento di classe dirigente da 40 anni a questa parte, in un Paese fin qui ingessato e corrotto come pochi in Europa. E il fatto stesso che prima ancora di giurare i sottosegretari competenti abbiano già annunciato lo stop alle privatizzazioni di porti e aeroporti, fa capire che la strada è tracciata.
Ma per comunicare in modo credibile tutto questo serviranno le parole dei poeti e quelle del cuore: se Tsipras invoca continuamente il “verdetto” (in greco etymigoría, “dire il vero”) del voto popolare, ora spetterà a lui rendere al vocabolario della politica quella sincerità smarrita in troppi anni di narrazioni ipocrite. “Sii molto prudente con le parole / proprio come lo sei quando porti in spalla un ferito grave” (Aris Alexandru, Zona morta, 1959).