Il ruolo dello Stato nel combattere la povertà. La ripubblicazione di una raccolta di saggi di Minsky, edizioni Ediesse, con un saggio di Bellofiore e Pennacchi
In questi tempi di crisi, la ripresa di “vecchie” letture è molto utile per riscoprire l’importanza di analisi che, al loro tempo, nell’assillo del quotidiano e di un pensiero pigro, sono state sottovalutate per la loro capacità anticipatrice. È l’impressione che ho avuto leggendo la raccolta dei saggi – inediti prima di essere raccolti dal Levy Institute (2013) e ora tradotti per la Ediesse – nei quali Minsky affronta, negli anni sessanta e settanta, il problema delle politiche di contrasto della povertà adottate dalle amministrazioni statunitensi (H.P. Minsky, Combattere la povertà. Lavoro non assistenza, Roma: Ediesse, 2014, p.259, € 15). Il libro si avvale di un saggio di Riccardo Bellofiore e Laura Pennacchi – che ne hanno promosso e curato l’edizione italiana – nel quale, più che attualizzarne le riflessioni, propongono, come indica il titolo del loro contributo (Crisi capitalistica, socializzazione degli investimenti e lotta all’impoverimento), una riflessione sull’attuale situazione di crisi e sul modo di uscirne che non sia quello regressivo prospettato dalle politiche di austerità.
Il pensiero di Minsky, ampiamente ignorato dall’accademia ai tempi dei mercati finanziari efficienti, ha ritrovato dopo lo scoppio della crisi il rilievo che gli era dovuto. Come noto il suo contributo all’economia politica riguarda la spiegazione dell’instabilità del capitalismo (del money manager capitalism) indotta dalla “razionalità” stessa delle istituzioni finanziarie che, strumenti per potenziare la crescita del capitale, ne enfatizza le fluttuazioni cicliche accentuando l’euforia nei periodi di boom e aggravando il panico nelle fasi successive. Per quanto fondamentale sia l’analisi minskiana della crisi anche per la questione che affronta in questa raccolta di saggi, il tema è come intervenire per evitare che i costi delle inevitabili crisi finanziarie ricadano sull’occupazione e sui redditi dei lavoratori. La proposta di Minsky – più volta ripresa nel libro – è sostanzialmente di prevedere, pur “con il limite di una certa meccanicità” come dicono Bellofiore e Pennacchi, uno Stato che operi come occupatore di ultima istanza, ovvero che si organizzi per offrire un’occupazione a un “reddito modesto per tutti” coloro che siano disponibili e capaci di una prestazione di lavoro da utilizzare nella creazione di valore sociale. L’argomentazione, come dice Randall Wray nell’introduzione al libro in lingua inglese, “è semplice” dato che, per realizzare una situazione di tight full employment (un sistematico eccesso di domanda sull’offerta di lavoro), è sufficiente accordarsi su tre punti: “la povertà è in larga parte un problema di occupazione; lo “stretto pieno impiego” migliora i redditi alla base dello spettro dei salari; per sostenere lo “stretto pieno impiego” è necessario un programma di creazione diretta di lavoro”. In sostanza, si tratta di un programma di investimenti pubblici per la produzione di quei beni materiali e immateriali – distinta ma non indipendente dalla produzione del mercato – che l’impresa privata non può e non vuole produrre. Il riferimento a un lavoro destinato a migliorare le condizioni di vita civile è opportunamente ripreso da Bellofiore e Pennacchi per allargare le riflessioni di Minsky al di là del mero sostegno della domanda e valorizzarne, nella doverosa critica del Pil come misura del benessere, gli effetti di innovazione sociale del processo di sviluppo.
Uno Stato occupatore di ultima istanza in grado di garantire a tutti un salario minimo per un utile servizio pubblico ha un ruolo decisivo non solo perché garantisce socialmente un reddito da lavoro sostanzialmente universale, ma, contrastando la flessibilità dei salari verso il basso, fornisce potere ai sindacati dei lavoratori di partecipare alla riorganizzazione istituzionale della società di welfare. Non si tratta solo, come osserva Papadimitriou nella prefazione all’edizione originale, di sottolineare che il lavoro è un “pilastro essenziale a sostegno della dignità individuale”, ma di realizzare un diritto all’occupazione funzionale all’espansione del benessere collettivo. Sta qui la polemica di Minsky, più volte ripresa, nei confronti di una politica di welfare, praticata ai suoi tempi e continuata dopo, di erogazione di sussidi monetari per il pericolo di un suo scadimento in politiche caritatevoli e in una ghettizzazione dei beneficiari. Una posizione comprensibile, ma non generalizzabile in assoluto; sia perché un’intelligenza “centrale” non è sempre in grado di rappresentare tutte le esigenze presenti nel corpo sociale e nessuno può garantire che, anche in uno schema miskiano, non vi siano soggetti “involontariamente” esclusi da un tale programma; sia perché, trattandosi di uno strumento come altri, esso non va respinto a priori; ciò che veramente conta è l’obiettivo: la protezione della dignità della persona e delle sue prospettive di sicurezza e di partecipazione.
Il punto cruciale della visione minskiana – ripreso con forza nel saggio introduttivo per la sua dimensione propriamente politica – è la “socializzazione degli investimenti”, nella quale si esprime tutto il “riformismo radicale” dell’autore americano. È la prospettiva, ripresa da Lange e Lerner, di “un «socialismo di mercato» che controlli i centri di comando (…) e promuova il consumo collettivo (…); a cui potremmo aggiungere (…) il controllo diretto dei movimenti di capitale” che, come viene ricordato nel saggio introduttivo, riconduce direttamente alle esperienze dei Piani del lavoro della CGIL del 1949 e a quelli più recenti sempre della CGIL del 2013 e della proposta di legge Airaudo-Gallino. La radicalità di una tale ottica è messa in evidenza dal confronto, bene illustrato dai due autori, con il “riformismo illuminato” di Keynes che, circoscritto a interventi puramente quantitativi sulla domanda, non sfugge alla critica radicale della Robinson per aver trascurato la dimensione qualitativa dell’intervento pubblico; non mancano peraltro opportuni riferimenti ad analoghe posizioni espresse, nello stesso periodo, da altri economisti, tra cui Graziani e Napoleoni, in un dibattito di grande spessore politico, del quale poco è rimasto nelle politiche che lo hanno accompagnato e lo hanno seguito.
Nell’illustrare la proposta minskiana Bellofiore e Pennacchi ricordano il contesto di politica economica nel quale viene formulata. Si è all’apice dei “trenta anni gloriosi” e si stanno preannunciano gli scricchiolii del modello di welfare keynesiano; la realtà è costituita da un assetto nel quale i tre grandi settori istituzionali (Big Bank, Big Government e Big Labour) hanno realizzato e stanno gestendo un compromesso con il Big Corporation per garantire – attraverso il sostegno della domanda pubblica (che negli Stati Uniti si risolve a favore prevalentemente del complesso militar-industriale) e la politica accomodante della banca centrale – la continuità dello sviluppo del dopoguerra assicurando profitti alle imprese e crescita dei salari. Un compromesso che Minsky non ritiene adeguato a risolvere il problema della disoccupazione che invece troverebbe negli investimenti pubblici la risposta più adeguata; per i suoi tempi e per l’oggi. Questa è anche la conclusione del saggio introduttivo dove si sostiene che la «socializzazione dell’occupazione» richiede che “l’operatore pubblico si debba dotare di un «Piano del lavoro» per la miriade di obiettivi che attendono solo agenzie e strutture che se ne prendano cura: tecnologie verdi, energia, infrastrutture, trasporti, salute, educazione, servizi sociali”.
Individuato così il problema, si chiarisce – a mio avvio, ma non credo che i due autori e Minsky sarebbero di avviso molto diverso – anche il “nodo” che ne impedisce la sua piena realizzazione. Per uscire da questa crisi (e dalle prossime) sarebbe necessario uno Stato con un ruolo risoluto nella gestione quantitativa e qualitativa dei suoi investimenti. La trasformazione in atto, non da ieri, del nostro sistema istituzionale – nella direzione di un adattamento al modello sociale trainato dal capitalismo transnazionale – presenta Government nazionali (ex Big) che non sono in grado di offrire ai loro Labour (in ridimensionamento come Big) un compromesso sociale efficace nel contrastare le prospettive di deperimento del reddito e della qualità del lavoro. L’inattualità di quel compromesso che costituiva l’architrave di una politica keynesiana appare evidente rilevando come Big Bank (effettivamente big) stia operando in funzione di una “Finanza” alla quale è stata delegata la funzione dell’allocazione degli investimenti privati (a scapito di quegli pubblici, specie nell’Europa del fiscal compact) e sia impegnata in uno stretto controllo monetario sull’evoluzione salariale affinché non vengano introdotte indebite (per i profitti) fluttuazioni dei prezzi. D’altra parte, l’attuale Government, sotto la pressione dei vincoli esterni, non ricerca negli investimenti pubblici (ma piuttosto nelle ulteriori privatizzazioni) la risposta per accrescere le risorse produttive (ma non le capacità di lavoro) addossandosi l’onere politico di assicurare l’adesione sociale alle riforme istituzionali che Big Corporation (vero big Big) – non più vincolato al territorio e alla società che lo abita – impone come unico modello per un’uscita dalla crisi che, per la maggiore disuguaglianza, crescente povertà e disperazione sociale, ha indubbi caratteri regressivi in termini di stabilità e progresso civile.
La lettura attualizzata dei saggi di Minsky – della cui ricchezza si è potuto qui utilizzare solo una piccola parte – ha un grande interesse in quanto permette di identificare il terreno di conflitto politico radicale tra prospettive diametralmente opposte (piena occupazione contro disoccupazione naturale) e tra soggetti connotati da una forte asimmetria di potere (tutti contro il Labour). “Il punto è che per contrastare lo sconvolgimento epocale che la crisi globale sta provocando non bastano strategie difensive, occorre una rivoluzione culturale (corsivo aggiunto) che faccia uscire dall’inerzia e dall’afasia, inducendo a riscoprire la discriminante destra/sinistra nello sviluppo dei «beni pubblici», dei beni sociali dei «beni comuni»”. Viene così posta magistralmente la questione cruciale: come intervenire per modificare il senso comune, la cultura sociale e politica dominante, nei media e in Parlamento, che non vi siano alternative possibili alla prospettiva perseguita egemonicamente dalle forze politiche (italiane e europee) maggioritarie. Più puntualmente, in assenza di uno Stato a ciò interessato, si pone la questione di come costruire e con chi organizzare un contesto politico e sociale di sostegno a interventi à la Minsky che si propongono una vera politica per il lavoro, della quale i piani per l’occupazione, con il loro obiettivo di intrecciare lavoro e benessere, sono essenziali per invertire le attuali tendenze regressive di instabilità, deflazione sociale, autoritarismo. Le puntualizzazioni offerte da Bellofiore e Pennacchi sono decisive per chiarire la posta in gioco e per sollecitare la consapevolezza che Hic Rhodus …
Hyman Philip Minsky, Combattere la povertà. Lavoro non assistenza, Ediesse 2014