Bretton Woods è stato, soprattutto, un evento di magia. O almeno è così che ci appare oggi, ai tempi della Grande Recessione, proprio perché ne cogliamo l’irripetibilità
Il primo luglio del 1944, quarantaquattro nazioni diedero vita a un nuovo sistema monetario internazionale. Sembra una filastrocca, o quella canzone per bambini (vincitrice dello Zecchino d’Oro, tanto per continuare con i richiami), con le nazioni – anziché i gatti, per altro anch’essi compatti in riunione, nella cantina di un palazzone – disposte in fila per sei, col resto di due: Stati Uniti e Gran Bretagna, le due potenze che architettarono il nuovo sistema. E quando si pensa alla sede scelta per la conferenza che lo stabilì, è difficile non andare con la mente allo Shining di Stephen King (e poi di Stanley Kubrick). Nella stessa regione nella quale King posizionò idealmente l’Overlook Hotel, il maestoso Mount Washington Hotel di Bretton Woods (una località sciistica del New Hampshire), vittima della Grande Depressione prima e della Guerra Mondiale poi, riaprì i battenti, dopo due anni di chiusura, proprio in occasione della conferenza. In un solo mese tutto fu pronto, ma si dovette assumere un nuovo manager, poiché quello precedente era stato licenziato per problemi di alcolismo – gli stessi che affliggono Jack Torrance in Shining. E la moglie di uno dei due architetti del nuovo sistema monetario internazionale, il britannico John Maynard Keynes, la ballerina Lydia Lopokova, danzava di notte nei corridoi del Mount Washington, proprio come i fantasmi della festa dell’Overlook.
Accostamenti arditi, certo. Eppure il richiamo a una canzoncina e a un capolavoro della letteratura (e del cinema) horror evoca scherzosamente un carattere di quell’impresa sul quale forse non ci si è soffermati abbastanza in passato, e che invece cattura sorprendentemente l’attenzione oggi, a settant’anni da quel luglio, e a più di quaranta dalla fine del regime di Bretton Woods. Un carattere magico: Bretton Woods è stato, soprattutto, un evento di magia. O almeno è così che ci appare oggi, ai tempi della Grande Recessione, proprio perché ne cogliamo l’irripetibilità, impreparati come siamo a indicare i fattori di successo del primo sistema monetario internazionale (anzi del primo ordine economico globale) della Storia creato al tavolino di una conferenza intergovernativa, e forse persino come sia stato possibile raggiungere l’accordo. Guardiamo con nostalgia a un successo che avevamo imparato a considerare come necessariamente effimero – d’altronde, il regime crollò il giorno di ferragosto del 1971, con un celebre discorso del Presidente Richard Nixon alla nazione americana –, ma impressionante: gli anni di Bretton Woods sono i «gloriosi trent’anni», quelli della più elevata crescita economica globale mai registrata, e mai più avvicinata. Ci eravamo convinti, e la convinzione è durata ben più di Bretton Woods, di aver trovato il trucco, e che il trucco rivelasse null’altro che un’illusione. Oggi riteniamo che il trucco non fosse, evidentemente, quello immaginato, e dobbiamo convivere con l’impossibilità pratica di riallestire lo spettacolo.
Ma la nostalgia per il magico ordine di Bretton Woods è anch’essa una finzione scenica. Perché se è certamente vero che la nostra crisi è conseguenza del venir meno di quell’ordine, che abbiamo ripudiato, è ragionevole ritenere che alcuni elementi costitutivi di quell’ordine stesso potessero facilmente divenire, col tempo, le cause della sua distruzione. Bretton Woods deve tutto, come direbbe il teorico delle relazioni internazionali Ikenberry, a un «lost moment of history», e dunque una finestra temporale irripetibile, che ne permise la costruzione. Né sarebbe stato un successo, si sottolinea con frequenza, se non fosse stato per il Piano Marshall. E quello di Bretton Woods è in fondo un «mito positivo» (proprio come lo è, in negativo, quello del Trattato di Versailles, al termine della Prima Guerra Mondiale), rimarca con forza lo storico Harold James, che dipende di fatto da ciò che è accaduto dopo il crollo del sistema, così come da ciò che è accaduto prima della creazione del sistema stesso. Un mito che spiegherebbe ad esempio il ricorso (di cui si parlerà in seguito) all’espressione «Bretton Woods II», per denominare lo strano equilibrio delle due superpotenze, Stati Uniti e Cina, ai tempi dei global imbalances, gli squilibri globali. Come se quello attuale costituisse una sorta di riedizione dell’originale sistema monetario del 1944, con la Cina (e poi l’India, e in futuro altre realtà emergenti) impegnata a ripercorrere, in un quadro di sostanziale stabilità del valore della moneta internazionale, la stessa strada percorsa da Europa e Giappone, nel dopoguerra, verso il centro del sistema. Così come si continua a utilizzare quella stessa espressione, un «nuovo ordine di Bretton Woods», per il possibile futuro, non lontano, di un mondo (economico) frammentato, dopo la crisi del 2007-2008.
Nessun «Bretton Woods moment» in vista, nessuna nuova conferenza di Bretton Woods è per il momento immaginabile. Troppe convergenze, direbbe ancora James, in quella finestra della Storia; troppe circostanze favorevoli, perché si possa sperare in una nuova Bretton Woods, e troppe persino per poter individuare in quel sistema un modello per il futuro. Ma di miti, oltre che di eroi, il mondo contemporaneo sembra aver bisogno; anche di miti costruiti ex post, con l’esperienza di un dopo decisamente più cupo. E allora il «nuovo compromesso di Bretton Woods» proposto dall’economista Dani Rodrik può davvero cogliere l’essenza magica di quel sistema – il fatto cioè di coniugare disciplina internazionale e autonomia nazionale, o «policy space», che misura la capacità di uno Stato-nazione di scegliere la propria via alla crescita e allo sviluppo (nella definizione offerta dalla United Nations Conference on Trade and Development, che di fatto ha introdotto il concetto stesso, il policy space si riferisce essenzialmente alla libertà e alla capacità di un governo di «identificare e perseguire il mix di politiche economiche e sociali appropriato per ottenere il processo di sviluppo equo e sostenibile più adatto allo specifico contesto nazionale» ) – e guidare, almeno idealmente, il processo di costruzione del nuovo ordine internazionale del futuro. Miti ed eroi, si diceva. In fondo, vi è un altro senso nel quale la nostra nostalgia per Bretton Woods appare una finzione scenica: abbiamo infatti, fortunatamente, altro a cui pensare, e cioè la possibilità di un’alternativa, quella suggerita dall’eroe tragico classico, sconfitto a Bretton Woods e tuttavia destinato a essere ricordato come il principale artefice del sistema – quando invece, di quell’eroe, il sistema rifiutò la rivoluzione. L’ordine di Bretton Woods è il prodotto di due guerre costituenti, delle quali la meno famosa si combatté negli stessi anni della Seconda Guerra Mondiale, tra due potenze soltanto, ed ebbe un vincitore, gli Stati Uniti di Harry Dexter White. È però nella visione dell’architetto sconfitto, il britannico John Maynard Keynes, nelle sue ragioni inascoltate, la possibilità di un’alternativa per l’oggi.
Il testo pubblicato è tratto dal volumeSecondo Keynes. Il disordine del neoliberalismo e le speranze di una nuova Bretton Woods, di Anna Carabelli e Mario Cedrini, Castelvecchi Editore, 2014. Per gentile concessione dell’editore