Padri e figli/Mentre i giornali mainstream parlano di crescita, romanzi e poesie raccontano tutta un’altra vita nella Grecia stravolta dalla scelta europea
Nella Seul del 2014, il 68% dei giovani non pensa nemmeno ad andar via di casa perché ostacolato da un sistema di affitti obsoleto e un po’ assurdo, lo jeonsae (che obbliga, in sostanza, a pagare le rate di anni in un’unica soluzione anticipata). Nella Grecia della crisi questa situazione è ormai endemica da anni, e ha stravolto la geografia dei rapporti tra le generazioni in modo talora tragico: un racconto dell’attrice Lena Kitsopulu, così politicamente schierata da essere oggetto di volgari attacchi e minacce neonaziste sul web, mette in scena la disperazione di un giovane disoccupato che si arrovella sul telefonino senza sapere cosa scrivere alla donna che ama, vergognandosi di non avere una casa degna per ospitarla, una macchina per scarrozzarla in giro, i soldi per invitarla al cinema, una bocca sana per baciarla, e dopo aver mangiato conserve e cibi da niente finisce aggredito dal cancro senza nemmeno una mano femminile ad accarezzarlo (“Addio, povero Kostas”, in: L’impronta della crisi, Metechmio 2013).
Questa realtà, così ovvia che unisce nel dolore – ipse audivi – gli ingegneri di Salonicco e le albergatrici di Santorini, inizia a diventare un topos letterario: tra gli altri, si segnala il recente romanzo in forma diaristica di Alexandra Deligiorgi Anestios (letteralmente «senza estia », «privo di focolare», ma anche senza punti di riferimento, senza centro di gravità), in cui un elettricista senzatetto narra i propri vagabondaggi per le strade di un’Atene caotica e indifferente, in preda a una solitudine che solo la scrittura riesce provvisoriamente a lenire. A un livello più “corale”, è notevole il tentativo del trentenne cipriota Kiriakos Margaritis, Quando usciranno i leoni baciami (Psichoghiòs 2013), in cui s’intrecciano le storie di una generazione perduta, tra avvocatesse disoccupate che fanno le cameriere, volontari attivisti per i diritti dei migranti, musicisti anarchici che cercano l’ispirazione, e neonazisti che si autoproclamano giustizieri della notte: un quadro generazionale frammentato, precario, senza alcuna speranza di coerenza né illusione di senso (all’infuori dell’amore), in un mondo che non è più un’agorà ma un’impietosa fossa dei leoni.
Eppure, a leggere i giornali greci in questa estate 2014, a sentire gli scampoli di dibattito pubblico sopravvissuti alla chiusura della televisione nazionale e al clima pacificante di «sforzo collettivo», sembra di vivere nel mondo dei dissòi logoi, quegli esercizi retorici degli antichi sofisti volti a sostenere prima una tesi e subito dopo quella diametralmente opposta. Da un lato (per esempio in molte pagine del Vima, per non dire di Kathimerinì e di altri media governativi) si ribadisce l’immagine della success story, di una Grecia riammessa al mercato dei titoli, rivalutata da Moody’s (da Caa3 a Caa1!) e finalmente pronta a tornare grande, battendo i pugni sul tavolo e liberandosi dai vincoli della trojka ; si insiste sulla grande fioritura delle recenti iniziative culturali, dal nuovo Museo dell’Acropoli all’imminente riapertura della Pinacoteca Nazionale, dalle affollate platee di Epidauro ai modernissimi musei di Iraklio; e si annuncia una lotta senza quartiere alla disoccupazione, sperando nelle startup, nei posti promessi dalla multinazionale Unilever, nei 600 milioni dell’Unione Europea destinati a impiegare 140 mila giovani per 2 anni.
D’altra parte, per esempio su Eleftherotypía e su Avghì (rispettivamente il giornale socialista e quello di Syriza), si racconta una realtà diversa, in cui spiccano la nuova pesantissima patrimoniale sugli immobili, le difficoltà e gli insuccessi dell’agenzia preposta a privatizzare enti, aeroporti e perfino isole (Taiped), gli intoppi nella lotta all’evasione fiscale, la progressiva riduzione dei mezzi di trasporto pubblici, il permanere di una corruzione pervasiva e il galoppo inarrestabile della disoccupazione. È, questa, un’ottica in cui i successi delle strutture culturali vengono interpretati nonostante l’assenza di una politica ad hoc (per inciso, si attendono tagli fino al 18% ai finanziamenti per le università nel nuovo anno accademico), e la creazione di posti di lavoro (anche quelli dei fondi europei) risulta sempre precaria, a termine, non rinnovabile; è, questa, un’ottica di totale sfiducia nella politica “europea” degli ultimi governi di coalizione, de facto commissariati da Bruxelles, da Francoforte e dal Fmi.
Così, il destino della gioventù più irrequieta rimane sospeso alle scelte estreme, che siano la vita d’espedienti, l’emigrazione di manovali e studenti (sarà casuale, proprio quest’estate, la pièce che narra il “salvataggio” francese di un gruppo di giovanissimi intellettuali greci, sottratti alla catastrofe post-bellica nel dicembre del ’45 e portati a studiare a Parigi sulla nave Mataroa?), o perfino la clandestinità del terrorismo (molti sono i ventenni tra gli arrestati nelle indagini sui nuovi gruppi di fuoco che percorrono il Paese).
La Grecia, la nuova Grecia che secondo alcuni paga ancora gli strascichi di una guerra civile mai suturata, matura insomma un problema di identità che sperava di aver risolto. Con l’entrata nell’euro nel 2001 (propiziata da conti truccati e dalla grave negligenza dei problemi di corruzione e bassa competitività) il destino del Paese sembrava ancorato una volta per tutte all’Occidente, dunque lontano dalle mollezze orientali come dagli avventurismi e dalle dittature terzomondiste. Ora che gli indicatori sincronici e retrospettivi denunciano tutti i limiti di quella scelta (checché ne dica il suo principale artefice, l’allora premier Kostas Simitis, per il quale le responsabilità vanno addossate alle politiche successive: si veda il suo libro L’uscita di strada, Polis 2012), la carta dell’Europa si deforma come quelle, ominose e inquietanti, disegnate dall’ottuagenario artista Konstandinos Xenakis (L’île Nowhere), per il quale i trattati di Maastricht equivalgono, come potenzialità distruttiva, a quelli di Versailles del 1919.
Ecco allora che il recentissimo dibattito sull’insolvenza argentina, scoppiato più veemente che in ogni altro Paese europeo, assume una duplice valenza: da un lato quella della politique politicienne, con i partiti di governo pronti ad additare la presunta insipienza di Tsipras, il quale ebbe a pronunciare anni fa in Parlamento, con riferimento al default del 2001, la celebre frase «Magari la Grecia avesse fatto come l’Argentina» (ma queste schermaglie polemiche vanno lette nel quadro dell’attesa di prossime elezioni anticipate, con le quali Syriza, che dopo le Europee è diventato ufficialmente il primo partito, si appresta a conquistare il governo del Paese, anche tramite nuove alleanze con altre forze di sinistra moderata); d’altra parte, un valore di autocoscienza più profonda, un modo di tracciare il perimetro del proprio futuro e di misurare la propria distanza economica e culturale rispetto al meridiano di Greenwich, di Roma, di Parigi.
«This is the end / Hold your breath and count to ten» ha scritto a caratteri cubitali – citando Skyfall di Adele – il giovane calligrafo urbano Simon Silaidis su un ampio tetto piatto di Atene. A sentirsi immersi nel countdown, ad onta dell’ottimismo dei giornaloni, sono molti giovani, quasi tutti i lavoratori precari (per esempio le donne delle pulizie che reclamano i loro salari non pagati, da Atene a Trikkala), una parte non trascurabile dell’ambiente (i boschi della Macedonia minacciati da fantomatiche miniere d’oro; le zone industriali dismesse, in attesa di bonifiche troppo costose; i siti naturalistici e archeologici dichiarati d’emblée edificabili per rivitalizzare l’edilizia; i ruderi dei faraonici impianti per le Olimpiadi del 2004 a Marussi e al Fàliro), e soprattutto gli immigrati stranieri. Ha suscitato scalpore la recente assoluzione in tribunale dei latifondisti e dei commercianti greci che nell’aprile 2013, nelle campagne di Manolada in Elide, aprirono il fuoco sui raccoglitori di fragole bengalesi che reclamavano vivacemente i loro stipendi non pagati. La coscienza civile del Paese è così tornata a interrogarsi, dopo gli orrori dei campi di Patrasso e dei naufragi di Lesbo, su quell’animo xenofobo che si diffonde specialmente fra i giovani, e che occupa anche l’ultimo giallo di Petros Màrkaris, Titoli di coda, la cui protagonista – la figlia del leggendario commissario Charitos – agisce come avvocatessa proprio per tutelare i diritti dei migranti, e finisce vittima delle violenze di Alba Dorata.
«Ovunque io viaggi, la Grecia m’accora», scriveva il premio Nobel Giorgio Seferis. E oggi la popolarissima decana dei poeti greci, Kikì Dimulà, lo prende alla lettera: «Il viaggio viene rimandato. // Viaggiare ora / con questa crisi? // chi può pagare i barcaioli // ma che fare se sei chiamato a forza / con mezzi propri senza dubbio // il sonno è gratis, non discuto // ma comunque chi darebbe la sua ultima moneta // per non tornare più? // Certo, il fallimento garantisce agevolazioni / nel pagamento // ma come pagare a rate / l’Acheronte // non scherziamo, dove si è mai sentito / un Acheronte a rate // ci irridono / in sostanza ci derubano perché // quel pedaggio / l’abbiamo pagato quattro volte tanto / per le precedenti morti in vita // e ora che ti vengano a parlare / dell’Acheronte a rate // son tutte favole / così appena sali sulla barca / ti spogliano ti portano via tutto // ti portan via perfino la coscienza // che allo sbarco / non ti aspetta nessuno // nemmeno un niente» (Crisi, in: «Neo Planodion» 1, inverno 2013-2014).