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Recuperare la missione dell’intervento pubblico

L’Italia che vogliamo/Il progressivo abbandono della progettazione di politica economica ha ridotto l’intervento dello Stato in economia a incentivi fiscali a pioggia. Ora, nella fase 2, si deve cambiare paradigma a cominciare da una banca pubblica d’investimento con la Cdp.

Proviamo a dare una definizione di politica industriale: è l’insieme delle azioni pubbliche che, attraverso strumenti diretti e indiretti, intervengono per accrescere la competitività di un Paese o di un’area, rafforzandone in modo mirato l’apparato produttivo. La politica industriale non si riduce unicamente ai singoli interventi diretti alle imprese, ai settori o all’industria pubblica, ma consiste anche nella capacità che un Paese ha di governare nel merito ciò che fa da contesto ai processi produttivi, coordinando gli attori pubblici e privati, monitorando in dettaglio l’implementazione delle politiche, stabilendo priorità, chiamando ciascuno alle proprie responsabilità (Biasco, 2020). Un’altra puntuale rappresentazione di politica industriale è quella di R. Lombardi: la necessità di cambiare il motore della macchina senza fermarla e, per questa via, creare tanto lavoro quanto se ne perde, magari di buona qualità.[3]

Delineata la cornice della politica industriale, dobbiamo pur considerare che il progressivo abbandono degli indirizzi di cui sopra, nel corso dei decenni, ha compromesso il sapere e il saper fare necessario per guidare i processi economici. La diretta conseguenza è stata di ridurre la politica industriale a incentivi fiscali agli investimenti privati, spesso destinati a sostenere azioni che le imprese avrebbero comunque intrapreso. Ciò ha compromesso la predisposizione ad esempio di Bilanci pubblici pluriennali focalizzati su alcuni grandi progetti di sviluppo tecnologico che si sarebbero potuti poggiare su un’agenzia nazionale per la Ricerca e Sviluppo. Dal momento che la ricerca è l’investimento che permette di anticipare la domanda, l’Agenzia avrebbe potuto raccogliere quanto di meglio il Paese esprimeva, comprese le università e i centri di ricerca, legandole alle filiere produttive e territoriali [4]. Se consideriamo la così detta green economy, per esempio, la ricerca è essenziale per raggiungere gli obbiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 e avviarsi verso un nuovo modello di sviluppo [5].

La descrizione di politica industriale richiama le sollecitazioni dell’appello Per un’Italia in salute, giusta e sostenibile: il presidio delle attività essenziali, l’economia mista, l’intervento pubblico nella produzione, la tecnologia, l’organizzazione dei mercati, la green economy come opportunità di lavoro e crescita, la necessità di una politica della ricerca [6] coerente sarebbero l’alfa e l’omega del nuovo tecno-paradigma (Perez, 2010). Tra le policy suggerite nell’appello, è puntualizzata la necessità di una Banca Pubblica d’investimento e di interesse nazionale da affiancare alla nuova mission della Cassa Depositi e Prestiti. L’assenza di una Banca di Interesse Nazionale, infatti, ha ridotto l’efficacia dei provvedimenti (Decreto Cura Italia e Decreto Liquidità), predisposti dal governo. In effetti, molte Banche non hanno fatto quanto era in loro potere. Sebbene i decreti del governo, potenzialmente, potrebbero garantire il 40% del PIL [7].

Abbiamo tutto, salvo la volontà politica?

Le osservazioni di cui sopra richiamano le domande fondamentali dell’economia politica. La Storia economica non si presenta mai allo stesso modo, ma le domande che la politica e gli economisti devono rispondere sono sempre le stesse. Sono le risposte della politica che segnano un cambiamento di paradigma. Possiamo enucleare tali domande in questo modo:

  1. Quanto capitale pubblico deve concorrere alla rigenerazione del capitale privato?
  2. Quali sono i settori che lo stato dovrebbe presidiare per affrontare la ricostruzione della nuova catena del valore?
  3. Quale è l’equilibrio più avanzato tra stato-finanza-capitale e lavoro?
  4. Quale dovrebbe essere il livello di reddito pubblico adeguato a fronteggiare le crisi più o meno inaspettate?
  5. Quale è il livello minimo di entrate e spese fiscali per rendere efficace la Pubblica Amministrazione?

Così come Reagan e Thatcher consegnavano al mercato il soddisfacimento dei bisogni individuali, riconducendo a questi ultimi gli interessi collettivi, Roosevelt assegnava alle istituzioni pubbliche il compito di rimuovere i vincoli di ordine economico e sociale per liberare la società dal bisogno. Ovviamente qualcosa del vecchio modello rimarrà per sempre, ma ad ogni “era”[8] le risposte mutano il “segno-contenuto”. Così come nell’era rooseveltiana sono state create le istituzioni per tenere in tensione la domanda effettiva utilizzando la spesa pubblica e la crescita del potere contrattuale del lavoro, oggi la politica deve dotarsi di nuove e coerenti istituzioni del capitale per rispondere in modo adeguato alle domande inedite che la pandemia COVID 19 ha dischiuso.

È importante ricordare che alcuni principi di una nuova “era” economica non sono estranei al Paese, così come all’Europa. L’art. 42 della Costituzione italiana fissa in modo preciso il carattere misto del nostro sistema economico quando afferma che la proprietà è pubblica e privata e che i beni economici appartengono allo Stato, ad Enti o a privati, e sottolinea che l’iniziativa privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo tale da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. L’economia mista è il tratto caratteristico del recente passato, dal secondo dopoguerra in poi, in ragione della forte incertezza legata al Covid 19, della pervasività dell’innovazione tecnologica e dei processi innovativi, di cui è difficile percepire l’esito finale, si pensi alla sfida legata al Green Deal europeo. Tale piano si basa su un’ampia base tecnologica, tra cui la biotecnologia, la nanotecnologia, la bioelettronica. Lasciare al mercato e al sistema di imprese l’organizzazione del futuro, significa assegnare alle imprese una pericolosa legittimazione storica e un ruolo sociale che sotto molti profili si avvicina alla legittimità e al ruolo proprio dello Stato. Si tratta, quindi, di re-declinare gli strumenti e le attività pubbliche, ovvero: 1) l’efficienza nell’allocazione delle risorse tra pubblico e privato; 2) lo sviluppo economico sostenibile sia nel breve che nel lungo periodo; 3) la stabilità del reddito nazionale; 4) la redistribuzione del reddito. In sintesi, occorre delineare un duplice impegno per la finanza pubblica: 1) un intervento macroeconomico teso a condizionare l’allocazione delle risorse private; 2) un intervento microeconomico che assegni alla pubblica amministrazione la capacità di realizzare beni e servizi intermedi (disponibili anche al privato), capaci di qualificare gli investimenti privati.

Si tratta quindi di trasformare il sistema da un paradigma tecno-economico di tipo neoclassico, regolato dalla domanda e dall’offerta di tutti i mercati (Figura 1), in cui i settori e gli agenti economici interagiscono a catena con collegamenti diretti solo tra alcuni di essi, ad un paradigma tecno-economico annidato (Figura 2), al cui centro si colloca l’agente Pubblico. L’area di intersezione degli interessi economici non deve essere solo la più ampia possibile, ma deve anche essere governata dal pregiudizio pubblico a favore dell’interesse generale del sistema complessivo. Si tratta, nei fatti, di una rappresentazione delle questioni sollevate Per un’Italia in salute, giusta e sostenibile.

Figura 1: Paradigma tecno-economico attuale (circolare)

Figura 2: Nuovo paradigma tecno-economico (annidato)

Le politiche economiche plausibili

Nel passaggio dalla così detta fase 1 alla così detta fase 2 di gestione dell’emergenza Covid-19 dobbiamo aprire una riflessione sulla struttura del sistema economico. Da un punto di vista economico, la fase 1 dovrebbe coincidere con il sostegno ai redditi e al credito; la fase 2, invece, dovrebbe qualificare l’intervento pubblico. Qualcosa emerge, pur con tutte le contraddizioni del caso. Ritornano i settori essenziali e strategici nel vocabolario della politica economica. Il presidio di questi settori permetterebbe di “governare” una parte della catena del valore lunga, verticale quando è realizzata da una impresa, orizzontale quando interessa l’interscambio commerciale tra gli Stati.

La fragilità dell’integrazione verticale e orizzontale del sistema economico ha rilanciato la necessità di presidiare i settori strategici ed essenziali. Se si prende sul serio la normativa a difesa dei settori strategici, senza inventarci artifizi soggettivi circa la definizione di ‘essenziale’, possiamo partire dalla Golden Power. [9] Si tratta di passare dalla salvaguardia degli assetti proprietari delle società operanti nei settori reputati strategici e di interesse nazionale, tramite poteri speciali, al presidio pubblico di tali società. È molto importante notare che, se guardati con occhio neutro, i settori interessati ricadono nel perimetro delle vecchie partecipate statali: la difesa e la sicurezza nazionale, le attività di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni, i settori ad alta intensità tecnologica, a cui possiamo ben associare le attività tipiche della pubblica amministrazione: scuola, sanità e previdenza e la politica agricola. Se l’azione di presidio dei settori essenziali si accompagnasse con un intervento rinnovato della Cassa Depositi e Presiti, il Paese (Governo) potrebbe avere degli strumenti per governare le grandi e piccole crisi di paradigma. La Cassa Depositi e Prestiti potrebbe assumere partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale in termini di strategicità del settore di operatività, di livelli occupazionali e di entità di fatturato, ovvero di ricadute per il sistema economico-produttivo del Paese. [10] Queste sono tutte le società che operano nei settori della difesa, della sicurezza, delle infrastrutture, dei trasporti, delle comunicazioni, dell’energia, delle assicurazioni e dell’intermediazione finanziaria, della ricerca e dell’innovazione ad alto contenuto tecnologico e dei pubblici servizi. Si tratta di strumenti in essere che, se riattrezzati, potrebbero implementare quel minimo di politica industriale descritta all’inizio dell’articolo.

Le misure di progetto e il ruolo di ricerca e sviluppo

I progetti sottesi alla politica industriale devono misurarsi con l’innovazione; questa è un fenomeno sistemico, coinvolge organizzazioni differenti, e diventa tecnica superiore di produzione quando è affiancata a delle innovazioni complementari, con una relazione coerente fra domanda e offerta. Per questo motivo il progresso tecnico è cumulativo e modifica continuamente, attraverso l’industrializzazione delle invenzioni e la diffusione delle innovazioni, il contenuto dei beni e dei servizi nel mercato. Il posizionamento economico e tecnologico del Paese è noto, ed è coerente con la propria specializzazione produttiva (Romano & Lucarelli, 2013; Nascia, Pianta & Isella, 2016) [11]. La questione che vogliamo segnalare sta nel fatto che l’accumulo dei ritardi tecnologici ha prodotto effetti strutturali non più rimediabili con i tradizionali interventi degli incentivi finanziari o simili per le imprese. Assumendo il potenziale di politica economica e industriale di cui sopra, la prima sfida di struttura è quella di cambiare il motore della macchina senza fermarla, attraverso l’industrializzazione della ricerca pubblica da parte dei soggetti sopra esposti, che tra le altre cose ben si combina con il presidio dei settori essenziali di Golden Power e Cassa Depositi e Presiti. Ciò è ancor più fondamentale se prendiamo sul serio il Green New Deal e non solo come un buon suggerimento per il ben-essere. La capacità di industrializzare la ricerca è tanto più fondamentale tanto più si accresce la componente green dei brevetti e tanto più appare come l’unica via per creare lavoro e al contempo ridurre le emissioni di sostanze inquinanti. Elaborando i dati NAMEA Istat attraverso un semplice modello econometrico [12] abbiamo stimato che ad 1 miliardo di euro investito in Ricerca e Sviluppo è associata una riduzione delle emissioni di CO2 di circa -3.07%, mentre ad un incremento di 1 miliardo in altre tipologia gli investimenti è associata una crescita delle emissioni +0.29%.

Ovviamente è necessario predisporre un bilancio pubblico coerente sia nelle entrate e sia nelle spese, assicurandosi che i servizi essenziali siano esigibili da tutti. La prima sfida rimane quella di sviluppare una società ad alto contenuto tecnologico e guidata dal capitale umano, in grado di far emergere, assorbire e valorizzare le competenze dei numerosi profili con alta formazione presenti nel paese, spesso non valutati adeguatamente dalla domanda di lavoro.

Non accadrà in una notte, ma l’orizzonte potrebbe essere una ventata di aria fresca in una stanza chiusa da troppo tempo.

Bibliografia

  • Biasco, 2020, Chiarirsi le idee sul futuro del Paese. Idee per una politica industriale, ed. Pandora N°5
  • Perez, 2010, Technological revolution and techno-economic paradigms, in Cambridge Journal of Economics, n. 34, pp. 185-202.
  • Romano e S. Lucarelli, 2013, L’innovazione come chiave per lo sviluppo e la competitività, Quaderni di Rassegna Sindacale, n. 1, pp. 125-141; L.
  • Nascia, M. Pianta e L. Isella, 2016, RIO- Rapporto Paese 2016: Italia

Note

[1] Ricercatore economico presso CGIL Lombardia e autore con S. Lucarelli di “Squilibrio”, 2017, Ediesse (roberto.romano@cgil.lombardia.it)

[2] Ricercatore in statistica economica presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca e presso Associazione Economia e Sostenibilità – Assesta (p.maranzano@campus.unimib.it)

[3] R. Lombardi, 1963, Tribuna politica, https://vimeo.com/264466906.

[4] Ad oggi una Agenzia non c’è, e i programmi di ricerca sono ripartiti tra non meno 8 ministeri e venti regioni, spesso incoerenti e generici.

[5] A questo proposito, segnaliamo alcune nostre elaborazioni su modello, realizzate per Associazione Economia e Sostenibilità – Assesta di Milano, in cui la R&S è l’unica componente dell’attività economica che permette di ridurre le emissioni di CO2, assieme al lavoro, diversamente dagli investimenti e dal valore aggiunto.

[6] Al momento solo l’appello Per un’Italia in salute, giusta e sostenibile (aprile 2020) ha tematizzato la questione. www.sbilanciamoci.info.

[7] Nel DEF di aprile si legge: L’intervento sul 2020 è equivalente al 3,3 per cento del PIL, che assommato al Cura Italia porta al 4,5 per cento del PIL il pacchetto complessivo di sostegno all’economia, a cui si aggiungono garanzie per circa il 40 per cento del PIL.

[8]  La declinazione della parola ‘era’ è importante: è un periodo di tempo caratterizzato da un fenomeno storico di vasta importanza, il cui inizio è spesso assunto come punto di riferimento per la numerazione successiva degli anni.

[9] Decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21

[10] Articolo 7 del decreto-legge n. 34 del 2011

[11] In Nascia, Pianta & Isella (2016) emerge che “oltre il 60% della BERD delle imprese italiane elencate in tale pubblicazione è riconducibile a quattro sole società: Finmeccanica (settore aerospazio e difesa), Telecom Italia (telecomunicazioni), Unicredit e Intesa Sanpaolo (settore finanziario); Innovation Scoreboard (IUS), edizione 2018;

[12] Il modello considera gli effetti dei principali indicatori macroeconomici (investimenti, valore aggiunto, occupazione ed energia) come principali fattori per le emissioni di CO2. Per dettagli sulla modellistica e i risultati contattare gli autori;