Le pagine della crisi/ Nel racconto italiano della crisi i lavori recenti più interessanti sono quelli che insinuano un elemento di assurdità e di ironia
E insomma qui da noi non c’è nessuno che scriva un romanzo sulla crisi economica? Il dissesto del ceto medio, l’eclissi delle speranze, la rovina psichica che segue quella sociale, non c’è nessuno capace di tesaurizzare sulla pagina questa fase di depressione, come capita, come è sempre capitato – pensiamo a Steinbeck e Faulkner dopo il ’29, pensiamo ai nostri Pirandello, Verga e De Roberto con la crisi di fin de siecle, pensiamo chessò all’esplosione artistica dell’Argentina post-Menem… E in Italia, nel 2014, perché non si avvera quella profezia tutto sommato facile che Mario Vargas Llosa formulava nel 2008 allo scoppiare della bolla finanziaria: «La crisi economica avrà almeno un effetto positivo, quello sulla letteratura»? È una domanda che si è fatto già nel gennaio 2012, in un articolo simile a questo, Alessandro Beretta. Sull’inserto culturale del Corriere della Sera concludeva che in Italia nessun narratore prendeva sul serio questa sfida. E sembra vero: dopo la massa – se non la moda – di libri sul precariato (inchieste, romanzi, memoir, saggi, Murgia, Nove, Falco, Desiati…), il passaggio mancante è quello che porta dalla denuncia testimoniale alla elaborazione di un’opera-mondo, di un grande affresco, di una metafora illuminante.
Anche le narrazioni sul declino industriale – come La dismissione di Ermanno Rea, Storia della mia gente di Edoardo Nesi, Acciaio di Silvia Avallone, Invisibile è la tua vera patria di Giancarlo Liviano D’Arcangelo… – raccontano soltanto un pezzo della crisi italiana e pongono un tema che è almeno trentennale: come non sentirsi turbati da un Novecento operaio che va morendo?
Mentre la crisi inaugurata dal crollo dei mutui subprime, lo sappiamo bene, evoca un orizzonte più fosco anche del paesaggio spettrale popolato di fabbriche abbandonate: come comunicarlo questo senso di “crisi percepita”, come pensare di raccontare una società come quella italiana dove invece di coscienze di classe, scioperi estesi, conflitto diffuso abbiamo a che fare con una sorta di implosione del malessere, lotte sindacali sostituite dall’uso massivo di psicofarmaci? Se qualcosa può la letteratura è utilizzare i suoi mezzi, che sono la lingua e l’immaginazione. Per questo i lavori recenti più interessanti sono quelli che insinuano un elemento di assurdità, di distacco, di ironia, che invece di essere adesivi nella denuncia di un disastro operano un rovesciamento. Prendiamo Perciò veniamo bene nelle fotografie di Francesco Targhetta quando aggiorna il romanzo in versi di Pagliarani e Bertolucci per immortalare una condizione che da generazionale si è fatta cronica – il tempo post-universitario – evanescente, limbica, rinchiusa in un’ambra atemporale che solo la poesia, con la sua capacità associativa, può rendere. Prendiamo Nessuno è indispensabile di Peppe Fiore quando si mette nel solco della tradizione della letteratura industriale (Volponi, Ottieri, Balestrini) ripensandola in una chiave trash: ecco un’azienda perfetta dove però all’improvviso si assiste a una serie inspiegabile di suicidi cruenti. Prendiamo L’uomo d’argento di Claudio Morici quando costruisce un romanzo generazionale cambiato di segno e crea un’utopia inquietante di un neanche troppo fantascientifico mondo della postcrisi: il lavoro non esiste più, non c’è più uno straccio di benessere, ma la birra è gratis dovunque e le relazioni – mutate geneticamente – non generano più quei problemi legati alla progettualità o alla ricerca di senso per cui mettiamo in gioco i nostri sentimenti. Accettiamo che il futuro possa essere identico al presente, ed ecco con un angosciante tocco di bacchetta magica anche le nostre intemperanze, le nostre delusioni, e – viene da dire – «tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria». E, come chiosava sempre Marx, ognuno sarà costretto «a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti».
Ma se questi tre esempi sono tentativi consapevoli, anche forse dei battipista per una letteratura che verrà nel momento in cui la crisi non sarà più un trauma ma una patologia ormai genetica; sarebbe importante anche focalizzarci su un’altra produzione letteraria, quella più mainstream, ma anche quella amatoriale, andare a riconoscere nei romanzi pubblicati con il self publishing, nei diari in rete, nei manoscritti inviati alle case editrici, quali sono i sintomi di mutamenti generali, e riconoscere forse il crollo anche di un’attesa nei confronti di cosa può fare l’arte. È significativa, per fare l’esempio più scioccante, in questo senso la riscrittura rabberciata che qualche giorno fa Beppe Grillo ha fatto della poesia che è all’inizio di Se questo è un uomo. Non è tanto scandaloso per me piegare le pagine sull’Olocausto a un altro fine bassamente politico, ma è terribile farlo in un modo così pedestre. Se Grillo si concede di farlo è perché sente come la letteratura anche oggi, nel paese in cui vive, abbia perso la sua forza utopica, la sua dimensione di alterità profonda, la sua capacità di compiere sempre l’ultimo giro di vite.