Se l’Europa continua a essere profondamente malata a sei anni dalla crisi finanziaria del 2008 è unicamente il risultato della “cura letale” inflitta dall’establishment europeo ai popoli del continente. Un estratto dal nuovo libro di Thomas Fazi, “The battle for Europe”
Ormai è sotto gli occhi di tutti. Il “regime di austerità” imposto dall’asse Berlino-Francoforte-Bruxelles all’Europa (e in particolare ai paesi della periferia) dal 2010 in poi non ha solo provocato un disastro sociale. Ha anche devastato l’economia del continente: la retorica della “ripresa dietro l’angolo” è stata drammaticamente sconfessata dai numeri rilasciati recentemente dalla Bce, che vedono l’eurozona a un passo dalla deflazione, mentre il rapporto debito/Pil e il tasso di disoccupazione continuano a lievitare drammaticamente in tutti i paesi della periferia (e nell’eurozona nel suo complesso). Esattamente – ed è il caso di sottolinearlo: esattamente – come numerosi movimenti sociali, organizzazioni della società civile (tra cui, ovviamente, Sbilanciamoci!), economisti eterodossi e sindacati avevano ampiamente previsto e preannunciato. E non perché fossero dotati di chissà quali doti profetiche, ma perché se è vero che in economia di prevedibile c’è poco, su una cosa la maggioranza degli economisti del secolo scorso concordava (almeno fino a qualche decennio fa): le recessioni non si combattono tagliando le spese, ma semmai incrementandole, con misure che invertono il ciclo (anti-cicliche) invece di assecondarlo e di acuirlo (pro-cicliche). L’esatto opposto di quello che è stato fatto in Europa. Non c’è nulla di “naturale” né tantomeno di imprevedibile nell’attuale stato delle cose, dunque: se l’Europa continua a essere profondamente malata, a ormai sei anni dalla crisi finanziaria del 2008 – mentre le altre grandi aree monetarie più segnate dalla “grande crisi”, Usa e Regno Unito, sono tornate ai livelli di crescita pre-crisi, o quasi (pur con tutti i caveat del caso, a partire dall’insostenibilità di una ripresa trainata dalla finanza e basata sulla riproposta del vecchio modello di sviluppo) – è unicamente il risultato della “cura letale” inflitta dall’establishment europeo ai popoli del continente.
Incredibilmente, però, nonostante l’austerità si sia rivelata un fallimento clamoroso da praticamente tutti i punti di vista – anche in base agli obiettivi ufficiali adottati per giustificare tali politiche, a partire dalla riduzione del debito pubblico, secondo la retorica della “cura dolorosa ma necessaria” –, e sia ormai chiaro che senza un radicale cambio di rotta, che includa una revisione profonda dell’architettura stessa dell’Ue, l’eurozona è destinata inevitabilmente a implodere, le élite europee e nazionali continuano in buona parte a insistere sulla stessa strada, se si esclude qualche vago appello pre-elettorale alla necessità di “coadiuvare la responsabilità fiscale con la crescita”. Come disse qualche tempo fa Paul Krugman: “È come la medicina del Medioevo: salassavano i pazienti per curarli e, quando il sanguinamento li faceva star peggio, li salassavano ancora di più”. Come spiegare questa apparente testardaggine? Sono tre le spiegazioni possibili, a mio avviso. La prima è che i politici europei siano, molto semplicemente, degli incompetenti. Ora, anche se è innegabile che alcune questioni base di economia sembrano effettivamente sfuggire a molti politici nazionali (penso, per esempio, ai parlamentari italiani che in pochi minuti hanno votato la messa in Costituzione del Fiscal Compact), difficilmente si può dire lo stesso dei tecnici della Commissione Europea, della Bce e dell’Fmi che hanno letteralmente preso in mano le redini di molti paesi per mezzo della cosiddetta troika. Una seconda spiegazione possibile è che le scelte fatte dall’establishment europeo in seguito alla crisi siano da imputarsi all’ideologia neoliberista – o come l’ha ribattezzata di recente Susan George, “teoliberista” – che domina le suddette istituzioni, e più in generale l’attuale classe politica europea (sia di centro-destra che di centro-sinistra). Secondo questa spiegazione, i politici e i burocrati europei sarebbero talmente accecati dalle teorie pro-mercato e anti-stato dei “Chicago boys” da non riuscire a vedere – anche se messi di fronte all’evidenza – che il consolidamento fiscale e la deflazione salariale, se praticati in tempo di crisi, sono controproducenti anche ai fini del consolidamento fiscale stesso, e dunque della riduzione del debito. Questa interpretazione mi pare già più plausibile: è evidente che le scelte attuate dalle élite europee – e in particolare dai fortini tecnocratici che sono la Commissione e la Bce – hanno una componente ideologica molto forte. Lo stesso Martin Schulz, presidente del Parlamento Europeo, ammette che l’attuale Commissione è imbevuta di un’ideologica neoliberista estrema, che vede nell’eccessivo indebitamento pubblico degli stati e nella “mancanza di fiducia” dei mercati la causa principale della crisi attuale, e nella terapia a base di austerità, deregolamentazione, privatizzazione e liberalizzazione l’unica soluzione possibile. Questo è senz’altro vero, ma non mi pare comunque sufficiente a spiegare l’assoluta mancanza di autocritica da parte dell’establishment tecnocratico europeo, oltre che della dirigenza tedesca, di fronte all’evidente fallimento delle proprie politiche, nonché di una sempre più netta presa di distanza del Parlamento Europeo (vedi il recente rapporto in cui si mette in dubbio la legalità della troika) e persino dell’Fmi (vedi il “mea culpa” del Fondo sul bail-out greco) rispetto alle politiche di austerità.
A questo punto dobbiamo prendere in considerazione una terza possibilità, la più inquietante ma anche – a mio avviso – la più plausibile, che ha sì a che vedere con l’ideologia, ma non nel senso succitato: ossia che l’obiettivo principale dell’austerity non sia realmente il “consolidamento fiscale”, ma piuttosto la totale ristrutturazione delle economie e delle società europee in una chiave ancor più radicalmente neoliberista di quella attuale. In poche parole: la definitiva cancellazione del cosiddetto “modello sociale europeo”. Come scrive infatti Vicente Navarro, professore alla John Hopkins University, spesso ci dimentichiamo che “il neoliberismo è un’ideologia così influente anche e soprattutto perché promuove degli interessi consolidati molto potenti”. Siamo soliti, infatti, concentrarci sulle vittime delle politiche di austerità. E la lista, come sappiamo, è lunga: i lavoratori, i giovani, i precari, i pensionati, le piccole e medie imprese, ecc. Ma spesso ci dimentichiamo che queste politiche – a partire dalle cosiddette misure di “risanamento fiscale” – producono anche dei vincitori. In primo luogo, i detentori di titoli pubblici dei paesi dell’eurozona, perlopiù grandi banche e fondi d’investimento. La scelta, per esempio, di costringere gli stati membri ad accumulare enormi avanzi primari per assicurare che questi siano in grado di garantire il servizio degli interessi sul debito pregresso (in Italia 80 miliardi di euro l’anno, circa il 5% del Pil) – esemplificata dal Fiscal Compact –, è molto più di una semplice “stupidità”. Secondo alcuni, si tratterebbe addirittura del “più grande trasferimento di risorse dalle classe medio-basse a quelle alte nella storia”, come dice Seán Healy del think-tank Social Justice Ireland. E infatti, tra il 2010 e il 2012 il numero dei milionari europei è salito da 7,8 a 9,2 milioni. In questo senso, non appare esagerato definire l’austerità una forma di “guerra di classe”. Lo stesso vale per le misure di privatizzazione o di compressione salariale, che vanno tutte a beneficio dei grandi gruppi industriali, europei e non, che infatti hanno visto il loro margine di profitto tornare ai livelli pre-crisi. L’austerità, però, non produce solo un trasferimento di risorse da alcune classi sociali verso altre; produce anche un trasferimento di risorse da alcuni paesi verso altri. E difatti è sotto gli occhi di tutti come la scelta di ridurre gli squilibri commerciali inter-europei costringendo i paesi in deficit a tagliare i salari e a ridurre la domanda, senza però chiedere ai paesi in surplus di fare la loro parte stimolando la domanda interna, abbia determinato enormi benefici per i secondi (Germania in primis) a scapito dei primi, spianando la strada a quella che alcuni definiscono la “mezzogiornificazione” della periferia europea. In definitiva, possiamo ragionevolmente ipotizzare che quello a cui stiamo assistendo non è un incidente di percorso o il semplice prodotto di politiche “sbagliate”, ma piuttosto il risultato di un disegno preciso. Di una vera e propria “guerra di classe”. Che come tale va combattuta.