Uscirne sarebbe un disastro. Ma che fare per restarci? L’euro è nato da un progetto politico, ma la politica non è stata capace di completarlo
Dal gennaio 2001, data in cui undici nazioni europee (la Grecia si aggiunge nel 2002) adottano un’unica valuta, gli italiani vivono nella zona euro. Non era la prima volta che si tentava in Europa di utilizzare una sola moneta: nel XIX secolo si provò un’esperienza simile con l’Unione monetaria latina, che ebbe un esito infausto e di cui è rimasta traccia solo in lavori di storia economica e nel nome di alcune valute.
Non dovremmo dimenticarci che, tra la fine dell’Unione monetaria latina e l’euro, l’Europa ha visto varie guerre tra i suoi Stati. All’euro è stato imputato quasi di tutto: dal raddoppio dei prezzi (che tutti gli studi empirici smentiscono) alla crisi attuale (che girava per il mondo da più di un decennio prima che scoppiasse da noi), dal debito pubblico (che in Irlanda e Spagna non rappresenta un problema, mentre da noi inizia a crescere nel 1980 e accelera col governo decisionista di Craxi) a un disegno perverso delle banche (che hanno quasi tutte rischiato la propria stabilità finanziaria), alla volontà egemonica di uno Stato. Il vero problema dell’euro è che, così com’è oggi, è un disegno incompleto basato su teorie economiche che assumono che il mercato porti all’efficienza e all’equilibrio, e che la storia ha dimostrato essere sbagliate. Secondo gli economisti, un’area valutaria ottimale è quella in cui i paesi sono sufficientemente simili da poter condividere una moneta comune. Detto altrimenti, l’Europa non lo è, così come non lo è l’Italia o non lo sono gli Stati Uniti.
Condividere una moneta unica costituisce ovviamente un problema poiché così facendo si rinuncia a due dei meccanismi di aggiustamento: i tassi di interesse e il cambio. Prendiamo un paese come l’Italia: ciò che ragionevolmente potevamo aspettarci era un notevole risparmio sugli oneri finanziari sul debito (pubblico e privato) mediante tassi di interesse più bassi; d’altro canto, l’impossibilità di ricorrere a svalutazioni competitive avrebbe portato a deficit dei conti con l’estero (a cui si rimedia con la deflazione salariale, cioè un peggioramento delle condizioni di vita e una contrazione della domanda aggregata) e a un aumento dell’economia sommersa.
Se si aderisce a una moneta unica, la rinuncia ad alcuni strumenti di politica economica può essere compensata sostituendoli però con qualcos’altro, come una politica comune (Stati Uniti d’Europa) e condivisione dei debiti, mentre, a oggi, l’Europa non ha messo in campo altro che il Fiscal Compact.
L’euro è nato da un progetto politico, ma la politica non è stata capace di completarlo andando fino in fondo, ossia attuando le riforme strutturali da implementare perché la zona euro funzioni. Quando è stato introdotto l’euro, la politica si è illusa che sarebbe stato sufficiente che i paesi soddisfacessero soltanto certi criteri di convergenza, ovvero alcune condizioni macroeconomiche in termini di deficit e debito in rapporto al Pil, perché l’Unione funzionasse davvero (3 e 60 per cento rispettivamente). Non dobbiamo poi dimenticare che l’euro è stato realizzato in anni di euforia iconoclasta del fondamentalismo del mercato: una visione secondo la quale i mercati si riequilibrano da soli e sono efficienti, basta togliere l’impiccio del governo e fare in modo che la banca centrale si concentri solo sull’inflazione.
Questa visione ha prodotto un costo sociale assai rilevante.
Si è aderito a un’unione monetaria in modo fideistico: sapendo, certo, che l’Europa è un arcipelago di economie diverse, abbiamo aderito nell’illusoria speranza che ciò avrebbe provocato un’accelerazione della politica e che le economie si sarebbero auto-organizzate. Ancora una volta si è creduto, e fatto credere, che i mercati avrebbero aggiustato le cose: il mito della mano invisibile che aggiusta tutto al meglio ancora ci guida. Così le economie si sono effettivamente adattate, aggiustando le bilance dei pagamenti, ma verso il basso: la competitività si è ottenuta deflazionando i salari e non aumentando la produttività, come era ovvio, visto che è più semplice sognare che modificare la realtà secondo i desideri. L’economia avrebbe fatto da battistrada alla politica: all’Unione monetaria sarebbe seguita quella politica.
Giorgio Fuà spiega che, poiché alcuni paesi europei (i Paesi di recente sviluppo, Psr: Pigs più Turchia) si sono sviluppati tardi rispetto ad altri (i Paesi di sviluppo antico, Psa, ad esempio Germania, Francia, Inghilterra), presentano caratteristiche comuni (alta inflazione, dualismo territoriale, deficit della bilancia dei pagamenti e di bilancio pubblico, alta disoccupazione e notevole quota di economia sommersa) che li rendono strutturalmente diversi rispetto ai Psa. Queste differenze strutturali sono così forti da impedire un’unione monetaria se non si realizza un’unità politica. Quando arrivi per ultimo nello sviluppo economico ti devi specializzare per forza in produzioni a basso valore aggiunto (a bassa produttività: calzature, mobilio, tessili e abbigliamento), non puoi specializzarti in produzioni avanzate più innovative e redditizie (ad esempio computer ed elettronica) perché le fanno già i Psa e non potresti essere concorrenziale con loro. In più, questo ha esposto i Psr europei alla concorrenza dei paesi emergenti, per via della globalizzazione, mentre le piccole dimensioni d’impresa frenano la spesa in ricerca vitale per innovare e competere.
Quando il governo Prodi (con ministro dell’Economia Ciampi) ha guidato l’Italia all’adesione all’euro, l’idea di fondo era quella di unire politicamente l’Europa, e questo processo sarebbe stato accelerato dalla moneta unica. Ovviamente si sapeva bene che avere una moneta più forte rispetto alla lira avrebbe comportato vantaggi (ad esempio tassi di interesse più bassi) e svantaggi (come la rinuncia alla cosiddetta svalutazione competitiva). Le imprese erano abituate alla svalutazione e questo permetteva l’aumento della competitività, della ripresa economica che avrebbe potuto creare posti di lavoro: invece di aumentare la produttività, le imprese hanno cercato di risparmiare sul costo del lavoro attraverso contratti di lavoro flessibile/ precario, o direttamente sul salario. Il mancato compiersi di un’Europa politica sta dunque facendo fallire l’unione monetaria e riemergere il problema di integrare i Pigs con i Psa, come evidenziava Fuà.
Per comprendere meglio i termini del problema, guardiamo in casa nostra. L’Italia ha una zona più produttiva, il Nord, e una meno, il Sud (come l’Europa con i Psa e i Psr). Una sola moneta però (come l’Europa con l’euro). Se volete dividere il paese in due, sarà sufficiente introdurre una lira-Nord e una lira-Sud. Quello che succederà all’Europa se non realizzerà un’unione politica.
Il problema quindi non è solo relativo ai bilanci macroeconomici, quanto a differenze nella struttura delle economie, e nella loro produttività. A dimostrazione di quanto sostengo, si pensi ai casi di Irlanda e Spagna, due dei paesi europei ora in crisi seppure in surplus nel bilancio pubblico e con basso rapporto debito/Pil prima della crisi: la spesa eccessiva non è la causa dei problemi dell’euro, quanto piuttosto le condizioni strutturali, non dei singoli paesi, ma di tutta l’Europa. L’austerità fiscale non ha impedito la crisi, semmai l’ha aggravata riducendo il moltiplicatore (attraverso la redistribuzione del reddito a favore dei ricchi) e la spesa autonoma. L’esperimento di rigore fiscale è stato sperimentato più volte in luoghi e tempi diversi con lo stesso risultato: così è stato nell’America del 1929 con Herbert Hoover, mentre l’Fmi ha poi provato lo stesso esperimento in Asia orientale e in America latina. In ognuno di questi casi, le fasi di bassa crescita sono state convertite in recessioni, le recessioni in depressioni.
L’Europa non sembra aver imparato nulla dalla storia economica e, sotto la pressione della Germania e della Bce, e con il supporto teorico dell’economia mainstream, ha cercato di far adottare la disciplina di bilancio, cioè ha effettuato un salasso a un individuo anemico. Il poco sorprendente risultato è quello di una depressione, proprio come era stato per le crisi asiatiche e negli Stati Uniti sotto la presidenza di Hoover.
Serve un cambiamento strutturale dell’Eurozona se si vuole che l’euro possa sopravvivere: o ci sarà l’Europa politica o non ci sarà l’euro. Non è difficile individuare almeno quattro novità strutturali: – un sistema bancario unico per l’Europa, con assicurazione dei depositi;
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la mutualizzazione del debito (eurobond, Banca centrale europea che si indebita e presta denaro agli Stati);
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un ministero del Tesoro degli Stati Uniti d’Europa, che possa disporre di un budget e possa indebitarsi, ove necessario, emettendo eurobond, che la Bce possa sottoscrivere;
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l’abbandono di criteri di stabilità (deficit e debito in rapporto al Pil) di incerta base scientifica e che continuano a produrre sofferenze ai più deboli.
Occorre poi riconoscere che le norme introdotte nel 2012 (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack) di fatto impediscono ai singoli paesi di poter svolgere politiche economiche anticicliche, e occorre introdurre l’obiettivo della piena occupazione accanto a quello del controllo dell’inflazione nello statuto della Bce. C’è quindi bisogno di due riforme di politica economica:
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la politica riconosca che l’austerità non porta alla crescita;
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una politica monetaria restrittiva, ovvero di elevati tassi di interesse, deprezza il futuro. I tassi di interesse sono sì il prezzo della moneta, ma anche la misura della considerazione del futuro.
Cosa accadrà in caso di default e abbandono dell’euro? Come usciremo dalla crisi sfruttando l’opportunità del cambiamento?
La diminuzione del tasso di profitto del settore reale nei paesi avanzati ha generato un’espansione del settore finanziario che ha garantito la tenuta del sistema fino allo scoppio della bolla immobiliare nel 2007. La crescita del profitto ha portato alla necessità di reinvestire i risparmi accumulati. Il rallentamento dell’economia reale nei paesi avanzati ha implicato una fuoriuscita di risorse da questo settore non più remunerativo, incentivando la delocalizzazione produttiva e l’investimento finanziario in attività sempre più rischiose e complesse. L’iniezione di liquidità effettuata a più riprese dalle banche centrali americana ed europea non ha sortito rilevanti effetti positivi sull’economia reale dei paesi occidentali, mentre le banche hanno ripreso a speculare grazie alla maggiore liquidità a disposizione, accrescendo i propri profitti. Il salvataggio delle banche, con la conseguente socializzazione di perdite private, è importante per la salvaguardia del risparmio del ceto medio.
Però non è da escludere un’azione di indirizzo pubblico da parte dello Stato che ha investito risorse per salvare il sistema. Inoltre, il salvataggio bancario non è in grado di risolvere da solo l’attuale crisi. Infatti, non influisce sul problema di fondo, cioè una divergenza tra una produttività crescente e una capacità di acquisto stagnante o calante. In aggiunta, il salvataggio delle banche da parte degli Stati ha fatto lievitare il debito pubblico, già elevato in alcuni paesi come l’Italia. Quindi un problema è diventato ridurre il peso del debito pubblico rispetto al prodotto interno.
La strada che i governanti europei stanno seguendo è quella dell’austerità, alcuni hanno proposto il ripudio del debito e l’uscita dall’euro. Il ritorno alle monete nazionali renderebbe nuovamente disponibile ai singoli paesi lo strumento della politica monetaria per garantire il debito pubblico mediante l’intervento della propria banca centrale. Questa strategia può presentare una serie di criticità. La principale è che colpirebbe pesantemente il ceto medio, lo stesso che ora sta pagando i sacrifici richiesti dalla strategia di austerità. Questo gruppo di persone verrebbe colpito sia direttamente che indirettamente. Direttamente, dato che i titoli di Stato sono la forma di risparmio principale dei piccoli risparmiatori (l’incidenza dei titoli di Stato italiani nel portafoglio di un grande imprenditore che può permettersi di investire all’estero o portare le proprie attività in Lussemburgo o alle Isole Cayman è minima rispetto all’incidenza sul portafoglio di un piccolo risparmiatore). Il default dovrebbe quindi essere selettivo, per colpire solo i titoli posseduti da alcuni soggetti (ad esempio, le istituzioni finanziarie estere) e ripagarli invece se posseduti da altri (ad esempio, lavoratori e pensionati).
Al danno diretto si aggiungerebbero una serie di danni indiretti. L’uscita dall’euro propedeutica a una svalutazione della moneta (una nuova lira o un euro dei Pigs?), che faccia recuperare competitività al paese, porterebbe nell’immediato a una probabile impennata dell’inflazione (le materie prime quali petrolio e gas sarebbero molto più care) e a un peggioramento del potere d’acquisto e degli standard di vita. Inoltre, anche l’effetto benefico sulle esportazioni nel medio periodo potrebbe non avere la stessa ampiezza ottenuta dalla svalutazione del 1992, quando la competizione di prezzo dei paesi emergenti non aveva raggiunto i livelli degli anni Duemila, dopo l’ingresso della Cina nel Wto.
Un default implicherebbe una perdita di credibilità sui mercati internazionali che, per un certo periodo, eviterebbero di finanziarci (se non a tassi elevatissimi). La mancanza di credito e di investimenti potrebbe acuire la recessione.
Infine, l’uscita dall’euro dell’Italia sarebbe probabilmente causa dell’archiviazione dell’esperienza della moneta unica, il che potrebbe implicare la fine del processo di integrazione europea, poggiato principalmente su basi economiche anziché, come vorremmo, sulla felicità dei suoi popoli.