Euro tunnel/7 Una terza plausibile via sarebbe quella di trasformare l’euro da “moneta unica” a “moneta comune”, in un nuovo sistema di cambi tra monete nazionali
Il dibattito sul destino dell’euro sembra polarizzato su due posizioni: uscire, possibilmente domani, o rimanervi a qualsiasi costo. Due posizioni che rischiano di mettere in secondo piano l’analisi economica, la quale deve tenere conto dell’insieme delle ripercussioni che una rottura dell’unione monetaria comporterebbe, probabilmente non solo a livello europeo.
In un contesto in cui nessuna economia può dirsi in salute, nessuno studio, ipotesi o fantasiosa previsione può eliminare l’incertezza sugli esiti dello scioglimento dell’eurozona a causa dell’uscita unilaterale di un grande paese. Né il mero ripristino del tasso di cambio sarebbe sufficiente per rilanciare le economie in crisi, soprattutto se si tiene conto degli effetti destabilizzanti dell’uscita di un paese debitore sull’insieme dell’area euro e del fatto che l’ “eurexit” non comporterebbe, di per sé, la ripresa della domanda estera, mandando in fumo ogni previsione circa il rilancio dei Piigs attraverso l’export. La fine dell’euro non può tuttavia nemmeno continuare ad essere agitata quale causa di catastrofiche inflazioni o addirittura guerre continentali, dipingendo l’attuale status quo come il minore dei mali. Al contrario, l’austerità prima, e le politiche di liberalizzazione dei mercati poi, hanno dato impulso a tendenze deflattive, in alcuni casi assai pronunciate, che aggravano la posizione debitoria dei paesi più fragili, rendendo sempre più probabile il default sui debiti pubblici e privati. D’altra parte le contromisure in campo, basate sull’intervento condizionato della Bce, appaiono deboli e contraddittorie, essendo vincolate alle politiche di risanamento e alle cosiddette “riforme strutturali”, fonte di spinte deflazionistiche.
Ma se questo è, e se politicamente risulta irrealistico immaginare la creazione di una federazione politica di Stati con fiscalità comune, come evitare che la situazione si avviti? Una terza plausibile via sarebbe quella di trasformare l’euro da “moneta unica” a “moneta comune”, in un nuovo sistema di cambi tra monete nazionali. Riprendendo la proposta di Keynes a Bretton Woods, si tratterebbe di implementare un meccanismo di riequilibrio preventivo tra i paesi dell’area euro, con l’introduzione di una stanza di compensazione attraverso la quale si terrebbe il conto, denominato in Ecu, delle partite correnti dei membri dell’area valutaria. Attraverso interessi negativi crescenti su deficit e surplus eccessivi e, per questi ultimi, l’aggravante di una possibile requisizione, si scoraggerebbe la deflazione interna come strumento competitivo e si indurrebbero i paesi in surplus ad un aggiustamento simmetrico, ad esempio attraverso l’aumento dei salari nominali, l’espansione fiscale o la spesa diretta del surplus in produzioni dei paesi in deficit. Il sistema prevederebbe anche la possibilità di aggiustamenti del cambio concordati tra i membri dell’area valutaria.
Un meccanismo che amplierebbe la sovranità fiscale e monetaria degli stati nazionali, assicurando al contempo l’equilibrio della bilancia dei pagamenti, che non richiederebbe trasferimenti fiscali, superando così molte obiezioni politiche circa la sua adozione, e che potrebbe essere adottato anche dai soli paesi meridionali, allo scopo di ottenere un atterraggio morbido in caso di uscita dall’euro. Una soluzione sicuramente preferibile tanto all’attuale, insostenibile, moneta unica, quanto all’idea ingenua e propagandistica che si debba uscire dall’euro un venerdì sera e poi “vedere di nascosto l’effetto che fa”.